
Sfogliando la filmografia di Shinya Tsukamoto e ponendo particolare attenzione ad alcuni dei suoi primi lavori, che incidentalmente sono anche i più conosciuti, risalta immediatamente all’occhio la quantità spasmodica di violenza, sia materiale che visiva: il regista non si pone problemi nel renderla quanto più esplicita. In Tetsuo: The Iron Man (1989) i corpi dei protagonisti si fondono con metalli, tubi, cavi, creando esseri grotteschi la cui umanità è difficilmente visibile. In Tokyo Fist (1995) le ferite e i traumi fisici dei protagonisti portano i loro corpi al limite, facendoli sembrare costantemente sul punto di esplodere. In Hiruko The Goblin (1991) le decapitazioni sono all’ordine del giorno e, come se non bastasse, le teste delle vittime si tramutano in mostri assassini. Arrivati a questo punto si potrebbe pensare che le difficoltà e le sofferenze inflitte a questi personaggi possano bastare, ma non finisce qui. Tsukamoto rende ostile anche l’ambiente abitato dai suoi protagonisti: Tokyo diventa, a seconda dei casi, un labirinto apatico e alienante fatto di grattacieli infiniti e cunicoli stretti, appartamenti fatiscenti e uffici ostili, rendendo la vita dei suoi abitanti insostenibile. Risulta quindi straniante l’inchiodata effettuata con l’uscita di A Snake Of June (2002), film dove a essere esplicita non è più la violenza e l’ostilità della metropoli, ma l’introspezione della protagonista: gli elementi di sfida a cui far fronte non si troveranno più all’esterno, ma all’interno della propria psiche repressa. Questo cambio di rotta avrà conferma definitiva (o almeno così poteva sembrare al tempo) con il successivo film del 2004 Vital. Esattamente come un astronomo userebbe il telescopio per osservare e studiare lo spazio che ci circonda, Tsukamoto usa il microscopio per scoprire ogni minimo dettaglio del corpo umano e ricercare anche solo un elemento che possa rispondere a uno dei più complessi quesiti che ci si possa porre: dove risiede la coscienza?
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A sinistra: Tetsuo - The Iron Man; a destra: Tokyo Fist |
La volontà di concentrarsi sul corpo umano e sull’implicita introspezione che ne deriva nasce da un singolare episodio. Nel saggio Iron Man: The Cinema Of Shinya Tsukamoto di Tom Mes (2005), Tsukamoto fornisce una buona dose di dettagli sull’evento che lo ha portato a interessarsi al rapporto tra il corpo umano e la coscienza. Durante lo sviluppo di A Snake Of June decise di imbarcarsi in una breve gita in bicicletta quando, all’improvviso, accusò un lancinante dolore alla schiena che lo costrinse a un lungo riposo durato settimane:
I couldn't move. It was quite shocking and it resulted in me being bedridden for quite a long time. It was a scary experience, because it was almost as if my body was dead, while my brain was fully alive and functioning. That was actually the source of inspiration for Vital, the idea that consciousness can survive inside a lifeless body.1
Inevitabilmente questo interesse lo portò a visitare il museo di storia naturale de La Specola a Firenze, dove ebbe la possibilità di vedere in prima persona ricostruzioni estremamente dettagliate del corpo umano.
L’idea dell’intreccio che smuove davvero la narrativa di Vital si sviluppò però in modo più dettagliato durante le sue innumerevoli visite in un non specificato ospedale universitario, dove diverse domande cominciarono a innestarsi nella sua mente:
I observed several dissection classes and at one point I wondered 'What's the difference between these students and the bodies on their tables? The difference is consciousness, but where in the body is our consciousness located?' I asked their professor, a man who can normally answer any question about the tiniest detail of the human body, but he didn't have an answer to mine.2
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Raffigurazione del corpo umano del museo di La Specola |
Esattamente come in Tetsuo, l’evento scatenante di Vital è un incidente stradale in cui il protagonista Hiroshi, ex studente di medicina, perde non soltanto la sua memoria ma anche la vita della sua fidanzata Ryoko, seduta al suo fianco durante il nefasto episodio. Il corpo viene medicato ma la mente di Hiroshi rimane simile a una tela bianca ancora da dipingere. Ritrovatosi spaesato in un ambiente che non riconosce più, si avvicina nuovamente al percorso accademico dopo il fortuito ritrovamento dei suoi vecchi manuali di medicina ed è proprio nell’accademia che si ricongiunge con la ragazza defunta, questa volta sotto forma di cadavere da dissezionare.
Quella che potrebbe sembrare una storia dalle facili derive grottesche, in cui il cadavere altro non è che un banale strumento di disgusto, diventa una densa riflessione sul costante distacco e straniamento del cittadino urbano, non solo con l'ambiente in cui vive ma soprattutto con i propri simili. In che modo potremo mai attingere alla coscienza umana, che sia nostra o di qualcun altro, se il contatto fisico perde la sua importanza e rilevanza nella vita quotidiana?
Quello intrapreso da Hiroshi non è soltanto un percorso fatto di accettazione, rimembranza e lutto, ma anche e soprattutto un percorso di ricongiungimento fisico, imprescindibile nel plasmare e rendere vive le memorie e i pensieri.
L’interpretazione minimalista di Tadanobu Asano rende perfettamente l’idea di un personaggio (o, volendo, un corpo mancante inizialmente di un’anima) costantemente alla ricerca di un appiglio alla realtà che non sa più riconoscere, fatta di suoni e luoghi non più appartenenti alla sua vita. Questa ricerca avviene principalmente attraverso due sensi: il tatto e la vista.
Hiroshi, una volta uscito dall’ospedale, cerca attraverso il tatto di ricordare i luoghi e gli oggetti di cui ha perso la familiarità. Inizialmente una ricerca disperata dell’io perso nelle memorie, questo diventa con il tempo la caratteristica fondamentale che lo differenzia dai suoi simili. Mentre Hiroshi non si fa problemi nel toccare con mano e nell’avvicinarsi quanto più possibile al cadavere della ragazza defunta, i suoi compagni rigettano questo approccio, vedendolo come immorale e incomprensibile. Laddove Hiroshi vede il tocco come massimo strumento di empatia e di comprensione, le persone che lo circondano ne denunciano l’utilità. Persino i suoi genitori, le persone che in teoria dovrebbero amarlo più di chiunque altro, lo intimano svariate volte di abbandonare questo suo approccio. L’esasperazione di questa lontananza fisica la si può trovare nel personaggio di Ikumi: studentessa modello il cui modus operandi è quanto di più lontano si possa immaginare dal metodo di Hiroshi. Fortemente rappresentativa è la conversazione che intrattiene con uno dei suoi professori (che in seguito si suiciderà): nonostante la distanza che li separa sia di pochi metri, la loro conversazione avviene attraverso una chiamata telefonica. Ikumi inoltre è l’unico personaggio che prova un esplicito disgusto verso i cadaveri che riempiono il laboratorio di studio: riesce a svolgere le lezioni soltanto indossando quanti più filtri materiali possibili (oltre ai guanti indosserà anche una mascherina e una visiera).
L’alienazione di cui è vittima Ikumi è di proporzioni talmente grandi da non permetterle di provare alcun sentimento in seguito al suicidio del suo professore, confessando ad Hiroshi quanto per lei i rapporti umani stiano diventando sempre più frivoli. I giochi simil-erotici che intratterrà con il protagonista assumeranno dunque una dimensione di ambiguità: sono davvero dei momenti in cui Ikumi cerca un qualche tipo di connessione umana, imitando per certi versi il comportamento di Hiroshi, oppure sono soltanto sintomi di gelosia?
La vista svolge un compito importante tanto quanto il tatto. “Abbiate fiducia nei vostri occhi, è sempre stato questo il punto. La verità si trova davanti a voi per essere vista.”: è un concetto espresso dal professore universitario di Hiroshi, che avrà un enorme impatto nelle vicende successive. Dopo aver scoperto l’identità del cadavere usato come oggetto di studio, il protagonista verrà catapultato in una serie di visioni in cui potrà finalmente ricongiungersi con l’amata perduta. Tuttavia queste visioni non verranno interpretate da Hiroshi come una ricongiunzione con le memorie perdute, ma come eventi del presente, delle esperienze nuove mai vissute prima. Non tradisce i suoi occhi; accetta invece ciò che vede come la realtà, rappresentativa del suo contatto fisico con Ryoko.
Queste visioni diventano sempre più intense quanto più diventa intensa e ossessionata l'analisi del cadavere di Ryoko da parte del protagonista. Sembra quasi che Hiroshi stia per arrivare al punto di svolta, stia per trovare anche solo un barlume della coscienza della ormai defunta amata in mezzo alle viscere e agli organi, un imprescindibile fisicità che si lega alla suddetta coscienza.
Fondamentale in questo senso è la fotografia che rappresenta queste visioni. Inizialmente dalle tinte blu, le stesse che colorano la metropoli alienante in cui i personaggi si perdono, acquistano nel tempo toni sempre più naturali, dando un senso di equilibrio inesistente nella manchevole realtà. Tatto e vista creano un mondo parallelo il cui nucleo è l’elemento più naturale di tutti: il corpo umano. Il contato fisico tra i corpi di Hiroshi e Ryoko è fondamentale in quanto rappresenta le sensazioni e le emozioni mancanti nel mondo reale. Se riteniamo il mondo che ci circonda ostile, se davanti alle avversità della vita ci si abbandona a un’alienazione per certi versi autoindotta, se si rifiuta il contatto con ciò che potrebbe salvarci, in che modo evolveranno i nostri rapporti?
E quindi alla fatidica domanda “dove risiede la coscienza?” e soprattutto “a cosa serve entrarne in contatto?”, in che modo risponde Tsukamoto? La risposta è tanto difficile quanto lo è la domanda. Il regista dal suo canto non dà una risposta precisa, ma solamente degli elementi che stabiliscono l’importanza di tali quesiti.
Dopo la fine delle lezioni ognuno dei personaggi ne esce fondamentalmente cambiato. Ikumi, grazie al tempo trascorso con Hiroshi, si emancipa per certi versi dalla visione del mondo e dei rapporti interpersonali distanti che la attanagliavano. Hiroshi, una volta completato il processo di lutto e guarigione, continuerà per la sua strada accademica, rinnegando dunque la sua vita passata fatta di abbandoni. Ryoko invece potrà finalmente lasciarsi andare, stampando nella sua coscienza la memoria più importante di tutte.
Sebbene la vita ci pone davanti a innumerevoli quesiti, la cui risoluzione non sempre è tangibile, una risposta verrà da sé nel momento più opportuno.
You still have so long to live, so you can’t answer properly.
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NOTE
1. Iron Man: The Cinema of Shinya Tsukamoto di Tom Mes (2005) (p.185)
2. Ibid
FONTI
- Iron Man: The Cinema of Shinya Tsukamoto di Tom Mes (2005)
- Vital (2004) — Special Features: The Making of Vital
- SHINYA TSUKAMOTO - Interview discussing the making of VITAL
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