Lo slasher che non fu
La travagliata storia di “Nightbreed”
Clive Barker è un autore britannico, classe ‘52, specializzato nel genere horror e noto ai più per il suo capolavoro “The Hellbound Heart” (in italiano arrivato come “Gli schiavi dell’Inferno”) del 1986, ispirazione per il suo debutto come regista l’anno successivo con “Hellraiser”, uno dei film body horror più influenti della storia, e primo di una lunga saga tutt’ora in corso. Pochi anni dopo quest’operazione, nel 1990, adatta per il grande schermo un’altra delle sue opere, il romanzo “Cabal” del 1988, dando alla luce “Nightbreed” (in Italia rimane il titolo del romanzo originale). La trama, tra carta e cellulosa, resta all'incirca invariata: Aaron Boone (Craig Sheffer), una persona con problemi mentali e tormentata da incubi circa la misteriosa e grottesca città dei mostri “Midian”, viene accusato dal suo psichiatra, il Dr. Philip K. Decker (interpretato dall’altro grande maestro del body horror David Cronenberg), di aver compiuto una dozzina di omicidi, esattamente come quelli di cui aveva sognato. In cerca di risposte e a seguito dell’incontro con un lunatico (Hugh Ross) che farneticherà del fantomatico luogo dei suoi sogni, si ritroverà in un vecchio cimitero apparentemente abbandonato, se non fosse per due mostruosi figuri che lo attaccheranno. Morso da uno di loro, scapperà solo per essere abbattuto dalle autorità per colpa di un inganno del Dr. Decker. Ma questo è solo l’inizio della sua storia.
“C'è una parte in tutti noi che invidia i poteri [dei mostri] e che vorrebbe vivere per sempre, volare o cambiare forma a piacimento. Quindi, quando ho iniziato a girare un film sui mostri, avevo intenzione di creare un mondo in cui ci saremmo sentiti stranamente a casa.” dice il regista in una sua intervista; la sua volontà, infatti, era quella di creare delle creature che, seppur spesso orripilanti, avessero un’innata umanità, capace di far empatizzare lo spettatore con loro in un modo che andasse oltre la prospettiva della fisicità. Una sfida ardua, specialmente a causa della complessità dei designs, descritti nel romanzo in diversi paragrafi, agevolata in parte da un budget di 11 milioni di dollari (equivalenti a circa $23,464,590 odierni se convertiti in base all’inflazione, una cifra ragguardevole per una produzione horror anche per gli standard di oggi) datogli dai produttori Morgan Creek e Joe Roth della Morgan Creek Production Company, come parte di un contratto di tre film che avrebbe dovuto includere anche un sequel per “Nightbreed”. Il titolo fu cambiato rispetto il libro originale per questioni di marketing e, come vedremo, non sarà il solo cambiamento che verrà perpetuato dalla distribuzione.
Il cast tecnico comprendeva, tra gli altri, talenti del calibro del quattro volte nominato agli Oscar Danny Elfman (noto per aver composto le colonne sonore dei “Batman” di Tim Burton e degli “Spider-Man” di Sam Raimi), il talentuoso concept artist Ralph McQuarrie (che in precedenza aveva lavorato per “Star Wars” di George Lucas, tra gli altri) e il montatore Mark Goldblatt (collaboratore solito di James Cameron, nominato agli Oscar per il suo lavoro in “Terminator 2: Judgment Day”). A seguito di due test screening, di cui il primo dalla ricezione abbastanza negativa, anche a causa di una soundtrack temporanea, venne effettuata una settimana di reshooting per modificare il fato dell’antagonista, il Dr. Decker, la cui morte non venne ben digerita dal pubblico. Nacque così la “Cabal Cut”, della durata di circa due ore e quaranta minuti, ridotti a solo 102 minuti per imposizione della Fox, mossa che porterà il direttore della fotografia, il premio BAFTA Richard Marden (che aveva già lavorato con Barker in “Hellraiser”) a lasciare la produzione come segno di protesta.
Questa versione, mutilata e riarrangiata per la volontà della distribuzione di venderlo come uno slasher, sulla falsariga dei successi di film come “Venerdì 13”, “A Nightmare on Elm Street” o “Halloween” (capostipite in senso moderno del genere), al punto da omettere la presenza dei mostri in gran parte del materiale promozionale causò una vera e propria snaturalizzazione dell’opera che, con tale sottogenere, aveva ben poco da spartire. Il film di Barker, infatti, era una critica sociale travestita da film horror, un’operazione non troppo dissimile da quella che George A. Romero aveva svolto nel 1968 con “La notte dei morti viventi” (“Night of the Living Dead”): i mostri, costretti a nascondersi, a seguito di secoli di torture da parte di quella che parrebbe l’inquisizione, sono una chiara metafora della situazione di quegli anni, in cui l’omosessualità e “le diversità” in senso più ampio erano viste come qualcosa di sbagliato dal principio, qualcosa che andava eliminato seppur non nuocesse a nessuno. Forte anche la critica alle forze dell’ordine, alla loro efficienza e ai loro modi.
Tutti questi temi, però, vennero quasi completamente persi, o perlomeno ridotti, nella versione che venne proiettata nelle sale, accolta debolmente sia da parte del pubblico che della critica (già inasprita nei confronti della pellicola per la scelta, contestata da Barker, di non avere un’anteprima stampa), con un incasso di appena 8 milioni di dollari sul territorio nordamericano e la cancellazione di un eventuale sequel.
Aspre furono molte delle recensioni dei suoi contemporanei, che si erano ritrovati dinanzi ad un film apparentemente (ed effettivamente) incompleto, dove le motivazioni dei personaggi e i loro archi personali erano stati rimossi per ridurre il tempo tra una scena orrorifica e l’altra. Il substrato d’impegno sociale era annacquato e di esso vi era solo una lontana parvenza, assolutamente ben nascosta durante la campagna pubblicitaria che continuava a promettere un film che non era mai stato pensato per essere tale.
Anche dalle recensioni positive, come quella di Ty Burr di “Entertainment Weekly”, in cui vengono lodate le qualità tecniche dell’opera, l’ambientazione di stampo gotico e la diversità dei design dei mostri, traspare come la dimensione della critica sociale, cuore effettivo del film, venga a malapena presa in considerazione e sottostimata, seppur non completamente omessa, riducendo “Nightbreed” a poco più di un film di exploitation con strepitosi effetti speciali ed elaborati make-up degni delle grandi produzioni hollywoodiane. Tra i pochi che coglieranno il vero significato dell’opera vi sarà l’artista Alejandro Jodorowksy, noto per i suoi lavori in ambito cinematografico, come “La montagna sacra”, fumettistico, in particolare con “L’Incal”, teatrale, filosofico e letterario.
Grazie agli sforzi di Mark Miller, vice-preside della casa di produzione di Barker, tutte le scene perdute, compresi i reshoots, vennero ritrovati e restaurati. Questo permise, per la prima volta nella storia, che la “Cabal Cut” prima citata, con il suo minutaggio mastodontico di 145 minuti, potesse venir proiettata nel 2010 all’HorrorHound Weekend d’Indianapolis. Tale versione, quasi mitologica, venne poi distribuita in blu-ray nel sito di Clive Barker nel 2017, seppur in copie assai limitate e tutt’ora ardue da reperire. Un’altra versione, a cura di Russell Cherrington, professore accademico di produzione di film e video presso l'Università di Derby, della colossale durata di 155 minuti, venne messa assieme nel 2012 e rilasciata dalla Warner Archive Collection, che la proietterà il medesimo anno al “Mad Monster Party” in Nord Carolina.
Nel 2013, l’azienda statunitense Shout! Factory, specializzata nella distribuzione home-video di classici del genere horror, annunciò che una nuova versione del film di Barker sarebbe stata distribuita quell’anno. Tale versione, quella attualmente reperibile anche in Italia grazie alla Quadrifoglio da gennaio 2021, dura circa 20 minuti in più della release cinematografica originale e presenta una quarantina di minuti completamente inediti o diversi rispetto quanto visto precedentemente. Al solo annuncio di tale uscita, l’edizione andò in sold-out durante il periodo di preorder, portando la Shout! Factory a raddoppiarne la tiratura.
Una produzione travagliata, ostacolata dai desideri pubblicitari, quasi “maledetta” (vi fu anche un incendio sul set, tra le altre cose) che però è stata capace di trovare nuova linfa e lo status di cult decadi dopo il suo primo rilascio, grazie ad una nuova edizione che ritrova il metatesto perduto.
Capitolo II
“Nightbreed” e l’horror postmoderno
Il cristianesimo come base di una mitologia mostruosa
“Nightbreed”, così come molti altri prodotti del genere body horror precedentemente citato, rompe gli schemi dell’horror classico, andando a donare all’intreccio di base varie profondità e puntando molto sulle nuove tecnologie. Il sottogenere in generale, infatti, non avrebbe mai potuto svilupparsi senza l’evoluzione degli effetti speciali, ben diversi dai pochi e rudimentali mezzi a disposizione dei pionieri del cinema.
Il critico Nasrullah Mambrol, nel suo saggio “Modernism, Postmodernism and Film Criticism” analizza alcuni elementi del cinema postmoderno, includendo “Nightbreed” nella sua analisi circa la paura di una sostituzione umana: “La scomparsa della razza umana [nel cinema] è all'ordine del giorno negli anni '90 e forse dovremmo sostenere che questo non è altro che una rappresentazione dell'immaginata scomparsa del dominio bianco.” scrive riguardo quel filone di film che includono, tra gli altri, anche “Blade Runner”. Tale paura è la stessa che, nel film, porta gli inquisitori del passato a sterminare le varie razze di “mostri”, spaventati di perdere la propria autoimposta autorità a causa degli straordinari poteri delle creature. Questo discorso, nel film, non solo viene citato direttamente, ma, in una sorta di ciclicità, si ripete quando, a causa del Dr. Decker, le forze dell’ordine effettuano un blitz nella città di Midian per sterminare i suoi abitanti, incuranti che siano uomini, donne o bambini.
Continuando a citare il saggio di Mambrol, possiamo prendere la sua analisi del finale di Blade Runner e vedere come possa risultare valida anche con quello di “Nightbreed”: “L'unione di Rachel e Deckard alla fine di Blade Runner […] parla di una fuga dalla miseria della condizione umana, in un fantastico idillio rurale. La svolta nel racconto - la possibilità che i nuovi Adamo ed Eva siano entrambi cyborg e la certezza che almeno uno lo sia (qualcosa che prima non era visto come qualcosa di diverso da una minaccia), rivela, forse, la profondità dell'ansia contemporanea per il futuro.”, esattamente come, al termine della pellicola di Barker, Boone e la sua ragazza Lori (interpretata da Anne Bobby), entrambi trasformatisi in mostri (il primo non per sua scelta a differenza della seconda), si preparano ad abbandonare il mondo nel quale hanno vissuto fino a quel momento per adottarne uno completamente nuovo come creature della notte.
Uno dei temi principali della pellicola è proprio quello della diversità e dell’accettazione di essa: anche il protagonista, Boone, inizialmente ha paura dei mostri e rinnega la sua nuova identità come tale, solo per imparare a comprenderla ed ad accettarla al punto da divenire egli stesso il leader della mostruosa comunità con il nuovo nome di Cabal.
Tania Modleski, Professoressa d’Inglese alla University of Southern Carolina, attivista femminista e critica culturale, “vede il film horror postmoderno come avente una carica politica, derivante proprio dal suo rifiuto di offrire mero intrattenimento, sconvolgendo i codici narrativi attesi e sfidando gli spettatori a ri-esaminare le loro idee e convinzioni”. Secondo questa chiave di lettura, “Nightbreed” si inserisce a pieno titolo tra le fila del postmodernismo, seppur, come già trattato, la distribuzione spingesse per farlo passare, agli occhi del pubblico, come un generico film dell’orrore dai canoni non dissimili da quelli del passato, forse insicuri del successo di un film horror non monodimensionale. Quest’idea, al giorno d’oggi, fa quasi sorridere dato che, negli ultimi anni, i maggiori successi del genere sono quelli del “cinema horror d’autore”, o art house, come i film di Robert Eggers e di vari altri registi indipendenti, passando per varie decostruzioni del genere come “A Girl Walks Home Alone at Night” di Lily Amirpour, che ricontestualizza la figura del vampiro nell’Iran contemporanea e in chiave femminista. All’epoca, però, il grande pubblico non era ancora abituato a questo genere di variazione dalla formula tradizionale e, al box office, erano spesso film mediocri a fare successo, ennesimi sequel di franchise già da tempo saturi.
Il successo postumo di “Rocky Horror Picture Show”, altro film che, in maniera più netta rispetto all’opera di Clive Barker, riuscì a riadattare i temi dell’horror per creare un vero e proprio fenomeno di protesta culturale e sovversione dei ruoli di genere, probabilmente era visto come un mero caso singolare e la storia aveva insegnato che, osare troppo con il cinema dell’orrore, portava al fallimento. Ironicamente, anche “Cabal”, negli anni successivi, godrà di un simile stato di culto tra gli appassionati del genere.
Perfino nel genere slasher, erroneamente attribuito durante il marketing a “Nightbreed”, la storia ci mostra che progetti più di spessore intellettuale non erano ben visti, come, ad esempio, lo slasher onirico “The Slayer” del 1986 che, nonostante le lodi della critica, passò velocemente in sordina e venne dimenticato. Lo slasher riuscirà a trovare una sua profondità solo a seguito della rivoluzione del ‘96 dello “Scream” di Wes Craven (già fautore di “A Nightmare on Elm Street”) dove il sottogenere verrà travolto da una carica metanarrativa che aprirà a sbocchi creativi ben più variegati per il futuro.
La pellicola di Barker, nelle intenzioni originali, è il fondamento di una nuova mitologia horror che avrebbe dovuto proseguire nei vari seguiti cancellati, ma la campagna promozionale, per assurdo, sembrò fare il possibile per distruggere tale ambizione. Il regista, vedendo come stava venendo promosso il film, si rivolse allo staff allibito: “Cosa state facendo? Questo non è il film, ed è stata data ogni tipo di scusa... Beh, non c'è tempo per cambiarlo, dobbiamo distribuirlo ora”.
Come fondamento di tale mitologia, Barker, aveva tratto spunto dai testi cristiani: il tema di una tribù allo sbando in cerca di un proprio salvatore è, infatti, uno dei principali elementi ricorrenti dell’intero cristianesimo ed il fulcro di tutta la storia di “Cabal”. “Temi biblici come l'Apocalisse e l'Armageddon, sono alla base di tutto il mio lavoro, a causa del mio interesse tanto per il folklore e le leggende quanto per l'iconografia cristiana. L'idea di Cabal esisteva da molto tempo, tuttavia; il libro è diventato sempre più grande e mi sono ritrovato con una mitologia, o almeno l'inizio di una mitologia, che era più grande di quanto avessi mai pensato che sarebbe stata”, racconta Barker in un’intervista. Il personaggio di Boone viene chiaramente paragonato ad un messia nell’opera e anche la sua stessa morte e resurrezione, se da un lato è un interessante sovversione della “fantasia di lasciare la carne (corpo) o la possibilità di una trasformazione del corpo in qualcosa di più, qualcosa di diverso” tipica dell’horror e della fantascienza postmoderni, ancora viva con le mutazioni di persone comuni in supereroi o supercattivi, certe volte anche estreme, nei grandi blockbuster Marvel e DC che conquistano le sale ai giorni d’oggi, può essere vista come un parallelismo con la crocifissione di Gesù. La sostituzione del tema dell’univocità con quello della metamorfosi, nel cinema postcontemporaneo, rompe, dunque, il mito del protagonista indistruttibile e pone, al suo posto, personaggi vittime di traumi, fisici o psicologici, dall’aspetto mutato, che si tratti dei sopraccitati supereroi o, come in questo caso, di mostri.
A rinforzare, invece, la tesi dell’ispirazione cristiana del film, la stessa città di Midian, dove abitano i mostri nel film, trae il suo nome dal luogo in cui, nei Libri Sacri, Mosè andò in esilio e, se ciò non bastasse, uno dei personaggi del film è addirittura un prete.
Padre Ashberry (interpretato da Malcolm Smith), ci viene presentato per la prima volta nella caserma della polizia, nella cella per gli ubriachi. Descritto come un prete che ha perso la grazia divina, collabora forzatamente con la polizia nell’assalto a Midian, nonostante appaia esitante circa la violenza indiscriminata a cui assiste. Curioso e disilluso, si strappa il colletto bianco e chiede a Boone di mostrargli la verità, finendo faccia a faccia con il dio Baphomet. Sotto shock, prova a toccare “l’acqua santa” della creatura, che però gli si rovescia addosso, sfigurandolo terribilmente e rendendolo, de facto, una creatura della notte alla stregua degli altri mostri. Sia nel finale alternativo che in quello originale, a seguito di tale evento, inizia a provare odio per il Popolo della Notte: nel primo riporta in vita il Dr. Decker lavando le sue ferite col sangue di Baphomet, nel secondo viene visto accendere ceri e spiegare al capo della polizia, prima di ucciderlo, come abbia visto il dio di Midian, quasi ad intendere una certa gelosia nel fatto che il loro si manifesti concretamente mentre il suo, quello cristiano, no, e affermando di esser intenzionato a sterminare ogni mostro vivente.
“E per la maggior parte di queste vittime, qual è stato il crimine essenziale? Il non essere umano. Questa era la piccola differenza che ci voleva. Se giudicati colpevoli, tutti i principi del perdono cristiano venivano sospesi, tutte le speranze per il paradiso frantumate, tutte le suppliche, le preghiere e gli scongiuri respinti. Siete diventati bruti e al di sotto della misericordia. E se l'aguzzino si sottraeva per un momento al suo dovere, diventava a sua volta sospetto e foraggio per la ruota” racconta Rachel (uno dei vari mostri, seppur all’apparenza umana, che abita Midian, interpretata da Catherine Chevalier), in una scena nella quale Lori viene sottoposta a orribili visioni circa la storia dello sterminio dei mostri, in un’aspra e palese critica ai valori cristiani, così rigidi eppure così contraddittori.
Il nome che assume il protagonista, oltre che il titolo del romanzo originale, “Cabal”, è un riferimento alla cultura ebraica in cui, il termine “cabala” assume il senso di una “dottrina [...] diretta all'interpretazione simbolica del senso intimo e segreto della Bibbia, quale è stato trasmesso per tradizione, attraverso una catena ininterrotta d'iniziatori”.
Baphomet, d’altro canto, se da un lato ricorda il concetto del Leviatano introdotto da Barker in “Hellraiser II: Hellbound”, e a sua volta preso in prestito dal cristianesimo, deve il suo nome alla divinità pagana Bafometto, di cui venerazione vennero accusati i Cavalieri Templari e alla base dell’iconografia moderna di Satana, visto similmente a Bafometto come un dio caprino.
L’intenzione di Barker, opposta a quella classica, era, come spiegherà in un’intervista, di non farci ritrovare “dalla parte dei cristiani che brandiscono la croce”, aggiungendo che “in realtà siamo dalla parte delle creature delle tenebre”.
Certamente non è la prima volta che Barker si approccia al cristianesimo nelle sue opere, anche il precedente film “Hellraiser”, altro esempio di horror postmoderno e di body horror, prendeva in prestito alcuni elementi della cultura cristiana, ma il fine risulta ben diverso: “Hellraiser era senza scuse un film con l'obiettivo di rendere i palmi delle mani appiccicose e farti sprofondare nella tua poltrona. Non eri sicuro di voler vedere cosa sarebbe successo dopo. Non è il caso di Nightbreed. È molto più benigno nelle sue intenzioni […] non vogliamo vedere i mostri morire. In realtà li troviamo interessanti. E sexy.”
Capitolo III
I mostri che ci creiamo
La discriminazione e il sottotesto queer di “Nightbreed”
Alejandro Jodorowsky, come già menzionato nel primo paragrafo, fu uno dei pochi a cogliere il sottotesto principale dell’opera di Clive Barker e a commentare a riguardo. L’autore, infatti, definì il film “la prima vera epica horror fantasy gay”. Un elemento importante per comprendere tutta la pellicola, infatti, sta nella sessualità stessa del regista: Clive Barker è apertamente omosessuale, forse la voce del panorama horror gay più forte che ci sia, e “Nightbreed” è la sua opera più esplicita, almeno a livello cinematografico.
Jodorowsky propone come tema principale dell’opera il “rapporto non consumato” tra il paziente (Boone) e il dottore (il Dr. Decker): quest’ultimo proietta su Boone la sua mostruosità, continuando a nasconderla, in una sorta di metafora per la repressione della propria sessualità e, la crisi che Boone vivrà dopo esser stato convinto di essere l’omicida, avrà connotati simili ad una crisi d’identità sessuale, essendo composta, tra le altre cose, di visioni sfocate dei suoi rapporti con la sua ragazza, come se non riuscisse più a ricordarli.
In cerca di accettazione, il protagonista partirà per la città di Midian, abitata da mostri, convinto di essere uno di loro, ma quando li troverà, essi diranno che non è quello il caso e che non appartiene a tale luogo. Abbiamo, dunque, un personaggio in crisi con se stesso, convinto di essere qualcuno che in realtà non è, alla ricerca di una comunità che non lo giudichi, di accettazione.
I “mostri” di Midian, come diventerà progressivamente più palese nel corso del film, sono una metafora per rappresentare le minoranze, in generale e, in particolare, quelle queer.
Nonostante, a primo impatto, possa sembrare strano associare creature deformi, in alcuni casi quasi demoniache, con una passione per il sangue, a persone omosessuali, in realtà vi è una spiegazione: i mostri di Midian non sono affatto violenti, anzi, cercano di evitare il confronto il più possibile e vivono in armonia in una società pacifica, nascosta dal mondo esterno a eccezione per pochi che sanno della sua esistenza e la difendono (come l’anziano che verrà torturato ed ucciso dal Dr. Decker verso l’ultimo atto del film), sapendo che la società non li accetterebbe mai a seguito di secoli di sistematico genocidio della loro specie, una vera e propria cruenta inquisizione già citata nello scorso paragrafo.
L’estetica della città si rifà a quella di un club notturno, con luci soffuse, in quanto, come spiega nella sua analisi il critico Leigh Monson, “i club sono il luogo ideale per la congregazione queer, fornendo uno spazio sicuro per socializzare e flirtare senza paura di essere scoperti o soggetti a violenze correttive socialmente condonate”.
Il tema della discriminazione diviene decisamente palese nella scena in cui una prima pattuglia della polizia, accompagnata dal detective Joyce (Hugh Quarshie) arriva a Midian per indagare sulle voci riguardo una società di mostri. Qui si imbattono nel mite Ohnaka (Simon Bamford), uno, forse, dei più umani tra i mostri, costantemente accompagnato dal suo cagnolino. Questi, esposto alla luce, inizia a bruciare agonizzante mentre i poliziotti continuano a pestarlo. Il solo che mostra un minimo di empatia è Joyce che chiede loro di lasciarlo stare vedendo cosa gli stava succedendo, ma quando Ohnaka allunga la sua mano verso di lui, in cerca di aiuto, il detective, seppur con dispiacere sul volto, fa un passo indietro, lasciandolo al suo destino.
Il detective Joyce è assai interessante nonostante non abbia molto screentime, non solo perché unico tra gli “antagonisti” a dubitare del Dr. Decker e sulla moralità di ciò che sta avvenendo (mostra rimorso anche quando i suoi uomini freddano Boone), ma anche in quanto unico personaggio afroamericano. Si ritrova, dunque, nel mezzo a un gruppo di caucasici razzisti e, seppur comprenda che i suoi colleghi non lo vedano in maniera troppo dissimile dai “mostri” a cui da la caccia, quasi per timore, cerca di omologarsi e di reprimere la sua empatia. La scena appena descritta è molto forte e una delle più emotive del film anche per questo sottotesto, non esplicato, ma lasciato intendere, e rafforzato dalla susseguente morte di Joyce per mano del Dr. Decker, in quanto anche lui “sbagliato” secondo il punto di vista corrotto dello psichiatra serial killer.
Boone anche è un personaggio estremamente interessante e atipico per quegli anni: non è il classico eroe senza paura, ma un protagonista fragile e complesso, in crisi con se stesso. Gli attributi più eroici, infatti, sono quelli della sua ragazza, Lori, che rischia la sua stessa incolumità per cercarlo e che gli da la forza di andare avanti, facendolo sentire accettato e cercando di fargli comprendere come non vi sia nulla di sbagliato in lui, nonostante i continui passi indietro a riguardo di Boone, costantemente sotto pressione: “Il Boone di Cabal [...] è un fallimento dal punto di vista sessuale e il suo rapporto con Lori è parecchio complesso. Boone è bello, ma danneggiato. È in terapia da anni [...] e le qualità che Lori porta nella loro relazione sono quelle che intuiamo nessun altro umano gli abbia mai dato: pazienza, incoraggiamento e, soprattutto, amore”, insomma, un ritratto inusuale per gli inizi degli anni ‘90, ancora fossilizzati nell’immaginario del “macho”, dell’uomo forte che salva la ragazza in pericolo, completamente decostruito da Barker che, invece di darci un ennesimo omaccione con la battuta pronta, ci restituisce un personaggio assolutamente umano, ben distante dalla “mascolinità” stereotipata di altri eroi cinematografici dei tempi. La matrice eteronormativa, quindi, viene messa in discussione, ribaltata, e, se "spesso le narrazioni si sono concentrate [...] sul crinale della sofferenza delle persone trans, il cui scopo finale sarebbe il passing, ovvero non rendere visibile il travestimento", in “Cabal” si ha l'opposto, essendo il fine ultimo di Boone quello di accettare la propria identità.
Il loro rapporto, nonostante il romanticismo, è comunque perverso, come nota lo stesso autore, tenendo a mente che uno dei due, Boone, è de facto un non morto; parlando dell’argomento, Barker, ha infatti commentato “la storia d'amore a volte è molto perversa; voglio dire, quello che sta succedendo tra Boone e Lori è estremamente perverso: si innamorano sempre più profondamente più diventano morti!”, culminando proprio con il sacrificio di Lori che solo una volta morta potrà effettivamente coronare il suo sogno d’amore di restare al fianco del suo partner.
I due personaggi più esplicitamente omosessuali sono, invece, Leroy Goom (Tony Bluto) e Devil Lude (Vincent Keene): entrambi, sin dalla prima scena, appaiono come una coppia gay con evidenti allusioni BDSM nei loro rapporti. Il primo, con la capacità di far fuoriuscire dal suo corpo due tentacoli, parla con fare molto effemminato e di se stesso usando pronomi femminili (addirittura richiamando i suoi tentacoli definendosi la loro “mamma”); il secondo invece viene raffigurato come un demone con la carnagione nero pece e vestiti attillati di pelle. Entrambi sono tra i personaggi di supporto della pellicola, partecipando alla guerriglia finale contro le forze dell’ordine e i vari civili pronti ad uccidere chiunque risultasse diverso. Anche Ohnaka, di cui abbiamo citato la tragica morte precedentemente, viene mostrato sotto una luce queer quando Narcisse (Hugh Ross), un altro dei mostri di Midian, flirta con lui, facendolo imbarazzare. L’orientamento sessuale dei personaggi, seppur non esplicato direttamente in alcun punto della pellicola, è deducibile grazie ai loro atteggiamenti, che risultano degli "atti performativi, ovvero comportamenti ripetuti e ritualizzati che nel momento stesso in cui sono messi in atto producono la categoria a cui apparterrebbero”.
Un popolo di emarginati in cerca di tranquillità non è un tema completamente nuovo, ma se, ad esempio, i mutanti delle pagine dei fumetti degli X-Men di Stan Lee si offrono più ad un discorso “razziale”, quello di “Nightbreed” è chiaramente una liberazione queer, un’idea “forse ambiziosa quando Clive Barker girò il film, ma probabilmente più senza tempo di quanto persino Barker potesse immaginare”. Seguendo il paragone con i Mutanti Marvel, il critico Sam Moore definisce così la loro relazione: “Questa idea attraversa molta cultura pop intrisa di supereroi (la politica degli X-Men in relazione alle minoranze e all'assimilazione contro la liberazione, per esempio), ma Barker sfida le norme di queste narrazioni. Gli abitanti di Midian non sono eroi di cui le persone normali non si fidano: sono mostri e il loro rapporto con il mondo di superficie è definito dall'alterità”.
Il momento più significativo arriva però proprio nel climax finale dell’opera, durante il tanto atteso scontro decisivo tra “il mostro umano” e “l’umano mostro”, tra Boone, ora ribattezzato Cabal, e la sua nemesi, il Dr. Decker. Questi si presenta nel mezzo della distruzione di Midian che lui stesso ha causato brandendo la testa mozzata di Narcisse, fino a quel punto una sorta di deuteragonista del film, e sfidando il suo ex paziente. Il personaggio di Cronenberg riesce effettivamente ad impalare con il suo machete l’uomo, ma non tiene conto della sua immortalità, finendo per essere definitivamente trafitto dalla sua stessa arma, ancora conficcata nel corpo di Boone. In quel momento è come se il killer dovesse affrontare la sua sessualità repressa, finendo per soccombere ad essa, in una palese metafora sessuale all’atto della penetrazione: il machete assume il significato nel membro che penetra Decker, idea ulteriormente suggerita dalla battuta “Bella festa, vero?” di Boone con fare molto ammiccante. “Boone e Decker, sono entrambi mostri a modo loro. Boone è in qualche modo destinato a diventare una creatura della notte in base alla loro profezia cosmica, mentre Decker, che è un mostro figurativo in quanto è effettivamente un serial killer, non è destinato a essere una delle creature soprannaturali rimanendo, nonostante la sua natura brutale, solo umano. Questo è il punto interessante che Barker afferma con il suo film: mostro è un termine relativo e un aspetto mostruoso non mostra necessariamente una vita interiore mostruosa”.
Clive Barker non cerca di donare umanità ai suoi mostri, in quanto essi non ne hanno bisogno, anche l’umanità è un concetto relativo e destinato a mutare, bensì cerca di sottolineare i caratteri disumani dell’umanità, per assurdo, usandoli come metro di paragone. Contrappone la pacificità di un popolo che, nonostante i soprusi subiti, non ha mai nemmeno pensato ad una vendetta, ma ha cercato un luogo sicuro in cui riposare, agli uomini che, con il solo pretesto della differenza, hanno attaccato pronti ad uccidere chiunque non fosse come loro. La critica di Barker è chiara nella director’s cut del film e, tristemente, omessa da quella cinematografica, nonostante, per uno scherzo del destino, una delle tagline promozionali del film si apre ad una lettura possibilmente queer alquanto calzante: “Lori pensava di sapere tutto riguardo il suo ragazzo… Lori si sbagliava!”, forse una delle poche tracce all’epoca delle reali intenzioni dell’autore.
“Nightbreed” è un film bistrattato, costretto a nascondere la sua vera natura così come i mostri della pellicola e, tristemente, come le reali persone che tali personaggi raffigurano, ancora vittima dei vari “Dr. Decker” di turno, pronti a imporre la loro visione del mondo come quella più giusta, incuranti dell’effettiva amoralità e brutalità delle loro azioni. L’opera è destinata a restare non come una reliquia di tempi lontani, ma come un costante ammonimento alla società di cui facciamo parte, sta a noi scegliere se essere ignavi come Joyce o fare qualcosa e diventare, in un certo senso, noi stessi Cabal.
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