All I want for Christmas is you... dead!
A cavallo tra gli anni ’70 ed ’80 lo slasher rappresentava il sottogenere horror di maggior successo negli Stati Uniti, venendo presentato in più versioni spesso molto simili tra loro, con pellicole che, a parte i grandi classici come Halloween, Venerdì 13 e A Nightmere on Elm St., poco avevano da raccontare, proponendo allo spettatore film molto spesso mediocri nei quali il body count si presenta come il principale mezzo per rendere fruibile il lato intrattenente e spaventoso della narrazione.
Diventa dunque fisiologica una sorta di flessione del genere dal punto di vista dell’interesse del pubblico, che molto presto si ritrova gradualmente ad evitare il genere, fino alla sua estinzione più o meno definitiva. Ovviamente in questo mucchio molte volte insipido, non è difficile pescare qualche pellicola in grado di differenziarsi dalla massa.
Lo slasher, sin dalle origini, ha sempre avuto un rapporto particolarmente sentito con le festività natalizie, riscontrabile sin dal film che in maniera ufficiosa si dice aver dato origine prototipicamente al genere stesso, ovvero Black Christmas di Bob Clark, da noi uscito col titolo Un Natale Rosso Sangue.
Questo rapporto di natura senza dubbio paradossale, facente forza della sensazione a lui intrinseca di malessere che l’accostamento fra una festività apparentemente innocente e delle brutali vicende di omicidi comporta, verrà successivamente riproposto nel corso del filone, come nel caso di Christmas Evil di Lewis Jackson del 1980 per poi arrivare a ben due pellicole uscite nelle sale nel solo 1984, ovvero il britannico Don’t Open ‘Till Christmas e, soprattutto, Silent Night, Deadly Night di Charles E. Sellier Jr., conosciuto in Italia col poco originale titolo Natale di Sangue.
Il film racconta la storia di Billy Chapman, un diciottenne orfano che nel 1971 ha visto i propri genitori venire massacrati da un maniaco vestito da Babbo Natale. Il forte trauma subito, unito alla severa educazione della perfida Madre Superiora dell’orfanotrofio da lui frequentato, contribuiranno a gettare in lui le basi per la nascita di uno squilibrio mentale dagli esiti devastanti.
Da questa breve sinossi capiamo come il film cerchi di sviluppare il lato psicologico del nostro protagonista, elemento che solitamente è totalmente trascurato in gran parte dei film che compongono il genere. Non siamo sicuramente ai livelli di Maniac di Lustig, ma possiamo sicuramente dire che la genesi dello squilibrio del piccolo Billy è senza dubbio convincente e ben messa in scena. Nei momenti, ad esempio, in cui il nostro protagonista si ritrova davanti la figura agli occhi degli altri innocente di Babbo Natale, il regista opta per il rapido montaggio parallelo in cui i flashback trovano riscontro con ciò che gli occhi del protagonista si ritrovano di fronte, che sia il costume rosso (sangue) di Santa Claus, che sia una violenza sessuale o il palpeggio di un seno, che rimanda alla sua mente il momento brutale in cui “Babbo Natale” violenta in mezzo alla strada sua madre inerme, per poi tagliarle la gola.
Partendo dall’ascia, che diventa il mezzo identificativo dell’uomo, così come il coltello da cucina per Michael Myers o il machete per Jason Voohrees, il nostro killer sembra seguire una sorta di codice morale nelle sue esecuzioni. Partendo dal suo saccente collega di lavoro, trovato a violentare la ragazza della quale il protagonista si era innamorato, per poi passare alla ragazza stessa, secondo l’uomo caduta in tentazione e quindi profonda peccatrice non più degna di vivere, il nostro Babbo Natale diventa metafora di quello tradizionale, andando in giro per la città di notte a decidere chi sono i buoni e chi i cattivi, come nella scena in cui una bambina lo scambia per il vero Babbo Natale, il quale decide di porle simbolicamente uno dei suoi strumenti di morte concedendole quindi di vivere.
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