venerdì 16 ottobre 2020

Un, due, tre... (Recensione "Emily Wants to Play")

Emily Wants to Play è un videogioco horror indie sviluppato da Shawn Hitchcock e pubblicato nel dicembre del 2015 dalla SKH Apps per piattaforme Windows, OS X, HTC Vive e Oculus Rift, ricevendo nei mesi successivi porting su iOS, Android, PlayStation 4 e Xbox One.

Il giocatore vestirà i panni di un fattorino delle pizze, il quale, giunto ad una casa per una consegna, la troverà vuota e, dopo che la porta gli si chiuderà alle spalle, si troverà intrappolato all’interno dell’abitazione. Ben presto il protagonista si renderà conto degli eventi sovrannaturali che hanno luogo nella casa, quali l’apparizione di tre bambole apparentemente possedute e la manifestazione del fantasma di una ragazzina, chiamata appunto “Emily”. 
I dettagli della trama verranno rivelati gradualmente al giocatore tramite indizi visivi, quali la posizione dei mobili e lo stato generale dell’abitazione, note disseminate per la casa e registrazioni vocali della madre di Emily, le quali fanno emergere un’inquietante storia di abusi e patologie mentali. Nonostante ciò il gioco lascerà ampio spazio di interpretazione di questi eventi passati, rispettando l’intelligenza del giocatore e creando un interessante mistero dalla dubbia soluzione, oggetto di moltissime lodi da parte della critica videoludica. Il tutto sarà ulteriormente arricchito da una grande quantità di easter egg e segreti, tra cui possiamo anche annoverare un finale nascosto.

L’obiettivo del gioco sarà quello di sopravvivere per sette ore (dalle 11 di sera alle 6 del mattino) all’interno della casa, venendo attaccati, inizialmente a turno e infine collettivamente, dalle bambole e dal fantasma di Emily. Il giocatore dovrà trovare il modo di contrastare queste entità grazie ad indizi disseminati per la casa e scritti su una lavagna, che spesso indicherà l’esatto opposto di ciò che si deve fare. I metodi per contrastare le bambole ed Emily ricalcano quelli che sono i classici giochi per bambini, quali il gioco del cucù o nascondino. Sebbene le prime volte le varie meccaniche risulteranno interessanti e intrattenenti, ben presto queste ultime diventeranno tediose e ripetitive, riducendo il gameplay a semplice routine e nuocendo alla rigiocabilità del titolo.

I design delle bambole sono di qualità accettabile e molto diversi tra di loro: Mr. Tatters è un semplice clown pupazzo, Kiki è una bambola di porcellana e infine Chester è un pupazzo da ventriloquo. Ironicamente il design più generico e meno accattivante è da attribuirsi alla stessa Emily, che non presenta nessun tratto particolare che la contraddistingue.

Purtroppo i modelli 3D di Emily e delle bambole si trovano in netta antitesi con l’ambiente di gioco, che presenta un design simil-realistico che non si sposa con l’eccentrico aspetto delle bambole e di Emily, che tende molto di più verso il cartoonesco.

Altra critica che ci si trova costretti a muovere nei confronti del gioco è quella relativa ai jumpscares, un cliché fin troppo comune negli indie horror, che risulta presente anche in questo titolo: purtroppo oltre a non risultare spaventoso finiscono per suscitare l’effetto opposto, ovvero l’ilarità, a causa delle animazioni di qualità discutibile e delle espressioni poco curate degli antagonisti del gioco.

Uno dei grandi punti forti del titolo sono le atmosfere: fin da quando metteremo piede nella casa dove il gioco è ambientato risulterà chiaro, tra luci lasciate accese, mobili sottosopra e scatoloni da trasloco mezzi pieni, che qualcosa non va. Il tutto è arricchito da un ottimo sound design, relativo non solo alle entità che incontreremo durante il gioco, ma anche all’ambiente intorno al protagonista, che trasmettono un senso di ansia ed urgenza; tra i suoni più efficaci possiamo annoverare: la pioggia e i tuoni dell’esterno, il forte rumore di apertura delle porte e gli assordanti rintocchi dell’orologio a pendolo, che ci ricorderanno continuamente del passaggio del tempo.

La colonna sonora è alquanto generica e di per sé non presenta nulla di interessante e innovativo, ma il titolo riesce a compensare ampiamente per queste mancanze grazie ad un uso sporadico ma efficace di quest’ultima, che permette al gioco di enfatizzare i momenti più salienti di cui il giocatore sarà testimone, creando così un continuo senso di suspence che arricchisce l’esperienza di gioco.

In conclusione, Emily Wants to Play è un buon gioco, con meccaniche interessanti, sebbene alla lunga ripetitive, e un’ottima atmosfera; si tratta di un titolo che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati del genere e a coloro che hanno un po’ di tempo da investirci.

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