L’errore più grave che si possa fare quando si parla di arte è quello di circoscriverla in un’epoca passata, di considerarla come un fenomeno puramente sincronico. Al contrario, l’arte è ancora viva, teatro attuale delle contemporanee spinte sociali, politiche, filosofiche, talvolta anche residuo di influssi passati. È il punto di approdo di una storia vecchia come il mondo, ma che ai giorni nostri risulta particolarmente interessante: è proprio in questa momento storico che l’arte ha subito uno dei mutamenti più ingenti e significativi, con l’approdo della tecnologia. La cibernetica ha generato un nuovo strato di alienazione, difficile da descrivere a parole, già avviato con l’industrializzazione.L’effetto che ha avuto la nascita dei macchinari, che sostituirono i lavoratori nelle fabbriche, è vagamente paragonabile a quello che ha avuto la tecnologia, con una differenza sostanziale: se l’alienazione capitalista aveva conseguenze principalmente nella casta del proletariato (generando uno squilibrio significativo a livello sia sociale che economico), l’alienazione tecnologica ha conseguenze su tutti. La tecnologia è a disposizione di tutti, ed ha trasfigurato la realtà in una dimensione quasi trascendentale, mediata da uno schermo. Si sono, dunque, avverate le profezie di Thoreau, che già nell’800 affermò che “gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro stessi strumenti”.
La particolarità di questa nuova alienazione tecnologica (che si accompagna ai non meno importanti nuovi influssi filosofici che derivano anche da essa) è il fatto che sia quindi omogenea, e dunque risulta difficile, per coloro che usufruiscono assiduamente di questi nuovi strumenti, riuscire a parlare di una “neo-alienazione”, in quanto si è insidiata negli interstizi più intimi della nostra vita, al punto da non riuscire più a scinderla da essa. Le conseguenze, tuttavia, sono ingenti. Un senso di perenne solitudine è il leitmotiv di una generazione che la condensa privatamente, la linea che separa la realtà dall’astratto si sbiadisce sempre di più.
Ed è proprio in questo contesto di confusione, di angoscia e negazione che si inserisce Grinnel Jibaja (@grinneljibaja30 su instagram), giovane pittore che con la sua arte riesce a comunicare al mondo il suo sgomento, e che mi ha gentilmente concesso di intervistarlo per questo articolo.
"The Savior", olio su tela, 2018
Nasce nel 1990, da genitori immigrati franco-tedeschi. Poliglotta, manifesta interesse per l’arte sin da bambino, sostenendo di non aver mai avuto grandi capacità sociali e che fosse l’unica cosa che apprezzasse nella sua solitudine. È, dunque, cresciuto in simbiosi con l’arte, usata come strumento di indagine prima esteriore, e poi interiore.
Studia presso la facoltà di arte della Pontificia Università Cattolica, specializzandosi nelle arti pittoriche, sua attuale occupazione, e nel 2012 inizia a dipingere professionalmente, all’età di soli 22 anni. Effettua la sua prima vendita presso la Kunstgalerie di Berlino, ed è stato pubblicato dalla rivista di arte spagnola Flamantes (nelle edizioni 1 e 2), nella rivista di arte peruviana Cuenta Artes (nelle edizioni 1 e 2), e nella rivista di arte tedesca Dreck Magazine. Le sue opere sono state esposte a Lima, Buenos Aires Aires, Madrid, Berlino.
È difficile definire la sua operazione artistica in modo sintetico, si tratta della risultante di più forze che convergono nel tema primario, che è quello della solitudine e dell’angoscia, nel quale più o meno qualsiasi essere umano riesce a riconoscersi. È proprio da qui che deriva la comunicatività della sua arte.
I colori che dominano le sue opere sono quasi perennemente il viola ed il rosa, che, per Grinnel, simbolizzano le malattie mentali, in particolare la schizofrenia.
Un’opera emblematica, che più o meno riassume la sua intera e geniale filosofia artistica, è “Nobody is real”, attualmente in vendita a 500 euro. Come recita il titolo del quadro, nessuno è reale in quest’opera. La scena pittorica si svolge orizzontalmente, ed è dominata da quattro figure antropomorfe, sedute in un angolo buio di quella che pare essere una caverna, o un angolo remoto dell’inconscio. Grinnel, infatti, ha ribadito di non essere in grado di decodificare troppo precisamente i meccanismi del suo inconscio. Si tratta, dunque, di una pittura di pancia, spontanea, non ragionata e che lascia spazio all’interpretazione del fruitore con numerosi spunti di riflessione.
Le interpretazioni che potrebbero essere date sono tante, distribuite in più direzioni e destinate esclusivamente alla sensibilità del fruitore.
L’arte che Grinnel produce non è un’arte per tutti, ma non è neanche un’arte per pochi. È il sillogismo della sofferenza umana, il perfetto paradigma dell’esistenza, la più timida confessione di chi vive in un mondo che non gli appartiene e il più straziante grido di dolore.
ARTICOLO DI
MANUELA GRIFFO
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