Il mio approccio alla saga di Thomas Harris può definirsi peculiare. Dopo la visione e l’abbandono verso metà della seconda stagione della serie di Hannibal nel 2014, mi riavvicinai a questo universo due anni più tardi col quarto libro della saga, Hannibal Lecter - Le origini del male, per poi vedermi il primo film, Il silenzio degli innocenti, e leggere il terzo libro, Hannibal, trovato per puro caso ad un mercatino.
Soltanto poco tempo fa ho deciso finalmente di approcciare il capitolo mancante di questa saga, per scoprire l’esistenza di non una, non due ma ben tre versioni diverse della storia.
Manhunter, uscito nel 1986 quando l’unico libro conosciuto al pubblico era proprio Il delitto della terza luna, dà minore importanza alla figura del cannibale, che non ha un ruolo di per sé ma esiste come diretta conseguenza di Will, al fine di mettere a nudo la sua vera natura e di allontanarlo da ciò che lo tiene ancorato alla sua sanità mentale.
Fino all’uscita de Il silenzio degli innocenti nel 1988, la figura del disumano psicologo era avvolta da un alone di mistero, tutto ciò che si sapeva proveniva dalle misere scene in cui compariva, e Brian Cox, avendo poco o nulla su cui basarsi, decise di ispirarsi ad un serial killer che aveva terrorizzato la scozia negli anni ’50, Peter Manuel.
L’attore era più interessato all'Hannibal uomo piuttosto che al mostro, la maschera di normalità che gli permetteva così facilmente di manipolare chi lo circondava.
“Il male vero è qualcosa di così spaventosamente normale da risultare insopportabile”, una definizione perfetta per il Lecktor di Manhunter (ebbene sì, persino il nome era cambiato in questo film, da quel che ho capito a causa di dispute in corso su chi ne fosse il proprietario), una presenza meno impositiva di quella di Hopkins, sbatte le palpebre, sovente distoglie lo sguardo e non si risparmia gestualità ampie e movimenti di spalle e testa durante le conversazioni.
Questo suo modo di porsi porta a dirette conseguenze su Will durante le scene, ma di questo andremo a parlare più avanti.
Red Dragon, del 2002, nasce invece come ultimo capitolo di una saga affermata e di successo mondiale, saga il cui protagonista è proprio Hannibal stesso, una figura ormai conosciuta e mostrata in tutte le sue sfaccettature. Anthony Hopkins ha già avuto 3 film per affinare il proprio personaggio, un individuo ermetico, disumano eppure elegante, un mostro ormai senza più nessun motivo per nascondere la propria natura, che tuttavia si diverte a giocare con i propri interlocutori per vedere fin dove riesce a spingerli.
Un altro elemento apparentemente minimo di cui bisogna parlare prima di passare al protagonista, e che entrambi i film falliscono nel rappresentare, è la famiglia di Will Graham.
Nel romanzo Will si è sposato con Molly dopo la cattura del dottor Lecter, diventando così il patrigno di Willy figlio del primo marito della donna.
Entrambi i film decidono invece di rendere il ragazzo, nel primo chiamato Kevin e nel secondo Josh, il figlio biologico del profiler, datando quindi il matrimonio a prima delle vicende con Jacobs e Lecter, e andando a privare di senso sia il ruolo della famiglia nella vita di Will, sia la scelta di Hannibal di rivelare al Dente di fata (tradotto dall'appellativo tooth fairy che la stampa dà a Dolarhyde) il suo indirizzo di casa.
Quando viene decifrato il messaggio sul giornale, infatti, Graham chiede alla moglie di tornare a vivere col figlio dall’ex marito, così da stare al sicuro mentre continua le indagini. Questo è un momento chiave per comprendere appieno il conflitto del protagonista.
Il matrimonio con Molly rappresenta il suo appiglio ad una vita normale, una normalità che non sente propria come proprio non è il ragazzo che cresce, tra i due vi è sempre una sorta di barriera che si inasprisce nel momento in cui li allontana.
La mossa di Lecter quindi non è un tentativo di salvare il Dente di fata né una vendetta nei confronti di Will per averlo catturato, bensì un modo per separarlo da ciò che gli impedisce di sprofondare nel baratro.
Anche sulla famiglia tornerò a parlare più avanti ma ora vorrei passare al personaggio più importante della storia, Will, rappresentato da William Petersen in Manhunter e da Edward Norton in Red Dragon. Personaggio del quale non posso parlare senza coinvolgere anche il serial killer di turno, Francis Dolarhyde, interpretato da Ralph Fiennes nella pellicola del 2002 e da Tom Noonan in quella del ‘86.
Dall’altro il profiler trascinato nuovamente nella mischia da moglie e amici, il suo sviluppo diventa chiaro nelle scene di confronto con Lecter.
La figura impositiva del cannibale lo intimidisce al primo incontro, non tanto per chi è ma per cosa rappresenta per lui, quel passato che aveva disperatamente cercato di mettersi alle spalle.
Dove Hannibal mantiene uno sguardo fisso e movimenti controllati, Will si dimostra curvo, evasivo, fatica a mantenere il contatto visivo col mostro e protegge le proprie cicatrici coi fascicoli, come Dolarhyde impedisce inizialmente alla ragazza di toccargli il viso.
Man mano che si addentra nel caso però, la fiducia in sé stesso si accresce, e allo stesso modo il suo approccio con Lecter cambia. Riesce a mantenere sempre più lo sguardo fisso negli occhi del dottore mentre gli rifiuta richieste con fermezza, la sua postura si fa più dritta, le sue ipotesi più mirate e sicure.
Tuttavia una scelta, dettata dalla natura stessa del film, mi fa storcere il naso. Al fine di dare maggiore spazio ad Hopkins, che altrimenti sarebbe comparso in due o tre scene dalla durata irrisoria, vengono sminuite le abilità di Will, che deve farsi imboccare le risposte dal famoso criminale per arrivare ad una conclusione.
Petersen e Noonan hanno invece un approccio diverso ai personaggi, apparentemente più freddo, ma che in realtà fa affidamento sulle abilità di Mann come regista.
Le loro similitudini, i loro conflitti, non sono mai totalmente rappresentati dagli attori, che mantengono un maggiore riserbo nell’esternare emozioni, quanto piuttosto dai colori.
Il blu, il verde, il rosso e in certi momenti anche il bianco e il nero, hanno un ruolo fondamentale nella lettura delle scene, e ignorarli significherebbe ignorare l’intero spessore psicologico del film, perciò assecondatemi per un poco mentre tento di spiegarvi cosa intendo.
Il blu è la guida dei due personaggi, l’appiglio che li mantiene umani, per Will questo significa la famiglia, per Dolarhyde Reba.
La casa di Graham è sempre illuminata da soffuse luci blu, così come di blu è illuminato Francis sul letto affianco alla ragazza, e ancora una volta in macchina prima di scoprirla insieme ad un altro uomo.
Di verde è illuminata la casa del killer, è verde la tavola su cui vengono disposti in centrale gli indizi sul caso e verdi sono la camicia e la cravatta del giornalista la notte in cui verrà assassinato.
Il rosso è il drago, il mostro allo scoperto che non incontra più opposizione da parte del suo ospite. È per esempio rossa la luce che illumina la lettera del Drago a Lecter.
Partendo vestito di azzurro mentre gioca col figlio, si presenta in nero sulla prima scena del crimine, nero neutrale che indossa più volte nel corso della pellicola quando tenta di nascondere il proprio conflitto.
Appena entra in contatto con l’assassino attraverso le sue opere, il richiamo del mostro diventa troppo forte per sostenerlo da solo. Chiama la moglie, ancora una volta immersa nel blu, e da quel momento la sua camicia si fa verde, con una cravatta blu a rappresentare il flebile appiglio che ancora lo sostiene.
La situazione si fa più estrema quando visita la seconda scena del crimine, la sua figura in camicia rossa si staglia nel mezzo di una fitta foresta verde mentre si infila ulteriormente nella mente dell'assassino comprendendone le azioni.
Dolarhyde a sua volta sfrutta il nero e il blu per nascondere la propria natura, un primo accenno di colori lo si può vedere a casa sua, quando la verde luce soffusa che illumina le stanze viene offuscata dall’accecante rosso del drago, che tuttavia Francis contrasta facendo sedere la ragazza su di un divano blu scuro, nel tentativo di tenersi a bada.
Luce che incombe anche nella casa della ragazza per poi venire inondata da un fascio rosso all’ingresso di Dolarhyde. “Francis se n’è andato, Francis se n’è andato per sempre.” le dice prima di trascinarla nella sua dimora.
Se in Red Dragon Ratner fa quindi affidamento sulla capacità di attori e sceneggiatura per esternare i loro dubbi e conflitti, Mann preferisce lasciare che gli spettatori giungano alle loro conclusioni visivamente.In entrambi i casi comunque le somiglianze tra i due personaggi sono evidenti, e il culmine di questo sviluppo parallelo risiede nello scontro finale.
Le pellicole vanno in direzioni abbastanza opposte nell’approccio, finendo tuttavia per ricadere nello stesso errore.
In Manhunter buona parte del finale del libro viene tagliato, nessun finto suicidio, nessuno scontro in casa del profiler. Quando Dolarhyde porta a casa sua Reba per ucciderla, Will vi si scaglia contro finendo sfigurato dal Drago.
Il film conclude invece con un finale inequivocabile, e mentre i titoli di testa scorrono, la sua maglietta azzurra brillante non lascia spazio ad interpretazioni.
Come se non bastasse questo taglio rende completamente insensata la scelta del dottor Lecktor di indicare al suo folle ammiratore l’indirizzo del protagonista, visto che non porta mai a vere conseguenze.
Red Dragon decide invece di seguire fino in fondo gli avvenimenti del libro.
Will raggiunge la casa di Dolarhyde, ma questa è già in fiamme e trovano il suo cadavere suicida tra le macerie.
Il suicidio però è solo un escamotage per attirare allo scoperto la famiglia, e proprio quando pensano di essere al sicuro ecco che rispunta nella loro vita. Un Drago che però non si è liberato dell’ingombrante ed umana personalità di Francis, e quando quest’ultimo minaccia di uccidere Josh, Graham ripete sul figlio gli abusi che il killer aveva subito da bambino. In questo momento Josh diventa Francis, al quale il Drago si aggrappa protettivamente, ed è Molly ad ucciderlo ponendo fine all’incubo.
Nonostante ciò nemmeno il film del 2002 comprende l’importanza dell’azione di Molly, e i Graham tornano a vivere insieme in tranquillità senza vere conseguenze a lungo termine.La verità però è meno rosea. Come detto prima, la famiglia di Will è la sua isola di normalità in un mare di mostri e incertezze.
Quando Lecter rivela la loro posizione a Dolarhyde, Will è costretto ad insegnare alla moglie a sparare e ad allontanare lei e il figlio dalla sua vita. Quello è il primo momento di rottura, il momento in cui la violenza inizia ad infiltrarsi anche in quell’angolo di purezza della sua mente.
Da quella scena, da quella decisione forzata, Will inizia a distanziarsi sempre di più fino a considerare addirittura il divorzio. Ma la decisione viene ancora una volta presa per lui quando Molly uccide Dolarhyde, quando il sangue infetta definitivamente la sua oasi lasciandolo senza più niente su cui poter fare affidamento, niente a cui tornare.
Il “lieto fine” a tutti i costi va in contraddizione con quanto mostrato e tradisce lo sviluppo dei personaggi. Non rovina le visioni di quelli che sono entrambi ottimi film, ma rovina quelle che avrebbero potuto essere, a modo loro, due splendide trasposizioni.
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