Comprendere la psicologia di un personaggio controverso come il Joker non è un’operazione semplice né esiste una comprensione universale per un personaggio del suo calibro, con 80 anni di storia alle spalle e centinaia di autori che ne hanno scritto nelle sue quasi 3000 apparizioni fumettistiche, mettendo da parte le decine di incarnazioni animate, videoludiche, cinematografiche e televisive.
Ridurlo ad una sola interpretazione assoluta, alla luce di ciò, sembrerebbe non differire dal presupporre che ogni persona nel mondo abbia la stessa indole, usare la stessa recensione per ogni film o lo stesso vocabolario per ogni lingua. È necessario, dunque, esaminare casi particolari e cercare di trarre le fila di questi, in un discorso dialettico di stampo platonico tramite il metodo dicotomico, creando una legge applicabile per i casi trattati, ma comunque modificabile in base di studi futuri, una sorta di somma di ciò che viene scoperto per ogni versione, seppur, anche questo, non sia sempre possibile a causa di quanto le varie interpretazioni siano dissimili l’una dall’altra. Pensiamo al Joker di Joaquin Phoenix che ha invaso i cinema lo scorso anno e l’annuale serata degli Oscar: un personaggio umano che agisce per vendetta nei confronti di un sistema corrotto e non per mero divertimento, un rivoluzionario che si pone come simbolo del malcontento di quella parte di popolo lasciato a se stesso, costantemente abbondato dai “potenti”. Ora pensiamo al Joker della serie animata “Young Justice”, ossia un maniaco supercriminale ai livelli di metaumani o alieni invasori, che agisce sulla base di ciò che concordano “le sue voci in testa”, una visione più semplice della sua malattia mentale. Come è facile notare, si tratta di due interpretazioni completamente agli antipodi, due personaggi completamente diversi.
Illustrazione originale di Cristiano Baricelli |
Quando si parla di psicologia del Joker, però, non po' che venire subito alla mente il fumetto che per primo ha tentato di donare uno spessore al personaggio, fino a quel momento diviso tra gangster, buffone innocuo e, più di recente, spietato omicida. “The Killing Joke” di Alan Moore cambia le carte in tavola o, meglio, per primo le scopre donandoci un quadro del clown principe del crimine costruito sulla figura di Batman, ideato come un suo riflesso oscuro o, se vogliamo, come un “possibile” Batman. Quest’ultimo aspetto è esplicato proprio dallo stesso Cavaliere Oscuro quando, nel climax, si mostra volenteroso di far redimere la sua nemesi, nella speranza non sia troppo tardi per lui, solo per avere le sue speranze spezzate dal criminale, conscio di come oramai sia troppo tardi per lui e, forse, di come sia anche troppo tardi per portare il suo storico rivale a rassomigliarlo.
Il momento di vicinanza dei due sta proprio nell'istante d’intima realizzazione, nell'attimo in cui ambedue si rendono conto di aver giocato lo stesso gioco fino a quel momento, di aver cercato di plasmare l’altro a sua immagine e somiglianza ed, effettivamente, di non essere così dissimili come potrebbe sembrare. È quella luce della torcia accesa dal pazzo nella barzelletta: i due pazzi si trovano uno di fronte l’altro, nella stessa condizione di partenza (volontà di fuga), uno da un lato, uno dall’altro, la luce della torcia, seppur visibile, è un percorso irreale, impercorribile, nessuno dei due potrà raggiungere l’altro, resteranno ognuno dal proprio lato, indipendentemente da quanto sia esiguo lo spazio che li divide e da come, appunto, di partenza abbiano vissuto la stessa esperienza, l’esperienza che, sia in Bruce che in Joker, è quella del trauma della perdita, un solo brutto giorno che ha distrutto la loro psiche. Batman non ride per la barzelletta, Joker non si ammutolisce per qualcosa che non viene mostrato: il primo comprende le loro similitudini per la prima volta ed entra momentaneamente nell’orbita del suo rivale, il secondo, invece, comprende la loro impossibilità di congiunzione ed entra quindi nei panni dell’eroe, riuscendo, proprio nella comprensione delle rispettive visioni, a trasformarsi, seppur solo per un attimo, l’uno nell’altro, in un momento d’intimità interiore condivisa. Joker capisce di non poter rendere Batman come lui e Batman di non differire troppo da lui, solo per dividerli di nuovo, la distanza tra i due resta invariata seppur i due si scambino di posto, come due parallele destinate a non incontrarsi mai: la realizzazione dei loro piani reciproci ha il mero effetto di scambiare loro di posto, non di unirli, in flusso costante che fa eco al concetto orientale di yin e yang.
Una chiave di lettura più generale del personaggio, invece, viene donata dalle opere di Grant Morrison e abilmente rafforzata dall’one-shot "Adventures of Sperman" vol. 2 n. 14 nella storia “The Sound of One Hand Clapping” di Max Landis e Jock, perfetta sintesi dell’idea di Morrison del personaggio e della sua essenza più profonda, al di fuori di quello che è il mondo fittizio cartaceo nel quale si muove, un’interpretazione metatestuale di un personaggio che, di partenza, va concepito come più che un semplice personaggio figlio dei testi. Joker, secondo la visione dell’autore scozzese di “Arkham Asylum”, è egli stesso manifestazione del testo, non un prodotto dello strumento di scrittura, ma quest’ultimo stesso, in piena accettazione del significato del suo ruolo nel gioco di carte: il Joker può essere qualsiasi cosa venga scritta, non esistono caratteri obbligatori che vadano seguiti, egli stesso è parte della storia e non un suo derivato e, in quanto tale, può muoversi in qualsiasi direzione (“vincendo a carte… giocando a scacchi” come il personaggio stesso afferma). Il personaggio svolge quindi una funziona metatestuale in completa metamorfosi, donandosi, dunque, a due interpretazioni possibili costantemente: quella generale e quella contestuale del momento in cui lo analizziamo. Questo suo essere più che una pedina del gioco, dunque, giustifica l’asserita “supersanità” del personaggio: egli non è sano nel senso stretto del termine, ma essendo parte più della carta stampata che dell’universo che si descrive in essa è consapevole della relatività dei suoi gesti, dell'essere effimero della sua realtà, e, dunque, agisce in base a questa, divenendo un vero e proprio performer con lo scopo di entusiasmare ed intrattenere non personaggi interni alle sue avventure, ma il lettore stesso, il suo invisibile pubblico a cui già si riferiva direttamente nella leggendaria serie animata di Batman di Paul Dini e Bruce Timm, rendendo non casuale la forte ispirazione che il personaggio deve, sia in Miller che in Morrison, a David Bowie che già aveva fatto del potere della spettacolarità il suo punto di forza.
Parlando di visioni contestualizzate, ad esempio, possiamo analizzare come il personaggio sia stato abilmente trattato in “Arkham Asylum: A Serious House in A Serious World”, capolavoro primo del Batman morrisoniano, che ci mostra un Joker sessualmente esplicito ed ammiccante che attacca il cavaliere oscuro sul personale con i suoi atti estremamente provocatori e teatrali, un clown principe del crimine che diviene a tutti gli effetti un artista che si esibisce su due livelli: uno, di facciata, per Batman ed un o più subdolo, per noi, i lettori, che riconoscono in Batman il puro strumento dell’esibizione del Joker. Il clown si diverte a ridicolizzare Batman andando a coglierlo di sorpresa, sfondando la sua intimità, il suo toccargli il culo, come viene esplicato dalla sceneggiatura, è un tentativo riuscito di infrangere le difese di Batman, riconoscendone le problematiche nella sfera delle relazioni sociali. Quel gesto e le battute che si susseguono portano Batman a perdere momentaneamente la sua dignità, a diventare l’oggetto della sua esibizione, la creta che il clown abilmente modella ed altera usando i suoi punti deboli, sapendo quali fili tirare, quali pulsanti toccare, come avrebbe detto il John Doe di “Telltale Batman”. Dopotutto, come spesso mostrato, Joker è un manipolatore (lo psicopatico Joker di Paul Dini manipola la dolce Harleen per creare il personaggio di Harley Quinn, ad esempio) e, nel doppio significato morrisoniano, il deus ex machina degli eventi. Le provocazioni di Joker in "Arkham Asylum", inoltre, come solito della scrittura del personaggio da parte di Morrison, trascendono la dimensione interna del fumetto e risultano frecciatine, provocazioni, a quelle critiche che mosse da Friedrich Wertham in "The Seduction of Innocence" che avevano accusato Batman e Robin di condividere rapporti omosessuali (non a caso Joker scherzerà proprio sul Ragazzo Meraviglia implicando un interesse sessuale di Bruce nei suoi confronti). Anche Miller, nel suo capolavoro, attuerà un'operazione simile con l'uccisione della frustrata sessuologa Ruth che dava la colpa delle gesta del Joker a pulsioni sessuali irrefrenabili, definendo il rapporto Batman-Joker un "incubo omofobico".
L’adottare diversi ruoli in base al contesto viene ulteriormente approfondito da Grant Morrison nel momento in cui il clown assume il monito del becchino Oberon Sexton nel suo “Batman & Robin”, diretto proseguimento di “Batman R.I.P." e della “morte” di Batman in “Final Crisis” dello stesso autore. La scelta stessa del nome e del ruolo non è casuale, Joker necessita di creare un collegamento tra se stesso e Batman ed il ruolo dello scavatombe è quello più vicino ad un morto come Bruce. Il personaggio si trasforma quindi in eroe non tanto per un’evoluzione psicologica approfondita e contestualizzata, bensì per un bisogno della trama che egli agisca in quel modo che nel contesto di Morrison, è pienamente giustificato. Il pubblico necessita il ritorno del cavaliere oscuro e così il personaggio altera se stesso in modo da poter portare a termine quel compito, finalizzandosi a perseguire lo scopo necessario. Il segreto della funzionalità narrativa del Joker in opere come "The Long Halloween" e "Dark Victory" di Jeph Loeb e Tim Sale, "Batman: Arkham City" o, per l'appunto, nel ciclo di Morrison, sta proprio nel fatto di essere trainatore, seppur prominente, della trama e non egli stesso il fulcro attorno la quale essa è creata e che va trasportato, seppur anche quest'ultima operazione, con gli giusti accorgimenti, come ha dimostrato Moore ad esempio, possa donare grandi opere.
Il suo uccidere Hurt è finalizzato a togliere dalla scacchiera l’altro grande giocatore del ciclo una volta che esso è terminato, ripulire la scacchiera per futuri autori e, la banana su cui il villain scivola, è piazzata lì non per casualità, ma perché li andava piazzata, perché lì serviva che quella buccia fosse posta per la storia e lì Joker, manifestazione della storia stessa, la posiziona in una rottura velata e poco percettibile della quarta parete, una rottura già mostrata in “Batman R.I.P.” e nel preludio con un Joker che appare così fuori posto nel contesto da esserne un perfetto punto di stacco, portando al limite la visione da cabarettista del Joker iniziata con “Arkham Asylum” di Morrison, al punto da adottarne anche i due colori principali, il rosso ed il nero, in un parallelismo più acuto e meno prevedibile di quello visibile a prima vista tra i due colori e la morte. Il Joker non è però nuovo a reinventarsi ed a prendere il posto di Batman nel momento in cui la storia ha bisogno che ciò accada, basti pensare alla bistrattata opera “Batman/Joker: Switch” di Devin Grayson e John Bolton, in cui il clown principe del crimine, ritrovando al centro di un’indagine in cui il cavaliere oscuro è assente, ne adotta la metodologia per risalire alla soluzione, solo per tornare se stesso nel momento in cui Batman irrompe nella scena. È il motivo per cui in “Batman: Going Sane” di DeMatteis e Joe Staton Joker torna “sano” dopo la scomparsa del Cavaliere Oscuro: la storia non necessità più che lui operi come il criminale che tutti conosciamo.
Questa interpretazione può essere applicata anche all’altro grande Joker fumettistico. Il clown principe del crimine che prende vita tra le pagine dell’indiscusso capolavoro fumettistico di Frank Miller “Return of the Dark Knight” dove il criminale resta in stato catatonico per circa dieci anni durante l’assenza di Batman a Gotham: non agisce in quanto, senza Batman, non vi sarebbero alcun pubblico a vederlo, ergo nessuna storia sarebbe scritta, zi adatta dunque a questa necessità di “non agire”, ma a questo torneremo più tardi. Il suo tornare sui suoi passi, di riabbracciare l’identità del Joker, è un tema centrale dell’opera, dove i vari personaggi riscoprono se stessi e comprendono di non poter fare a meno di essere ciò che sono: lo vediamo col vecchio Bruce Wayne ad inizio opera e con l’oramai non più sfregiato Due Facce: tutti loro non possono negare ciò che sono, indipendentemente da quanto tempo sia passato o dagli eventi che sono successi. Batman, Joker e Due Facce vengono rappresentati come il vero io dei tre personaggi, la loro reale interiorità e non solo alias o maschere che hanno adottato per ragioni esterne, lasciando sottintendere che gli eventi traumatici delle loro vite siano serviti solo a “liberarli” dalle maschere che la società ha imposto loro.
Molto interessante anche come, il dualismo di “The Killing Joke”, venga adottato anche nel corpus di opere di Miller in maniera retroattiva con “All Star Batman & Robin”, il tanto criticato fumetto co-scritto con Brian Azzarello e disegnato dall’abile mano di Jim Lee, dove si vede una versione inedita del Joker. Una visione cupa e depressa del personaggio, che osserva con una cinica malinconia la sua città e che con altrettanto disprezzo per la vita uccide la ragazza con cui era andato a letto la sera prima, ricollegandosi al Joker stupratore di “The Dark Knight Returns”. Questa interpretazione depressa del personaggio, in sintonia con quella del “Joker“ di Azzarello e Lee Bermejo, si contrappone a quella di un Batman che agisce per divertimento, che prova gusto in ciò che fa che, col passare degli anni, si ribalta, con un Batman anziano, finalmente mosso da qualcosa di più nobile ed un Joker che agisce per puro piacere personale, ricalcando la vicinanza dei due personaggi, ma la loro impossibilità di coesistere con la stessa visione del mondo, costantemente costretti a doversi controbilanciare pur potendo, all’occasione, barattare l’uno con l’altro il proprio modo di vedere le cose. Un conflitto costante che viene spezzato, finalmente, a fine del terzo volume di TDKR con al morte del Joker, presumibilmente a causa di Batman come sembrano dimostrare l’onomatopea del collo spezzato e il modo in cui sono disegnate le vignette dell’ultimo dialogo del Joker, in perfetta linea con quelle dei pensieri di Batman in contrapposizione con qualsiasi altra nuvoletta dell’opera, dove Batman, pur rifiutando di ammettere le sue colpe, pur negando ciò che ha fatto, si pone sullo stesso piano materiale, in linea teorica, della sua nemesi, portando, de facto, a compimento il suo piano. Quest'ultimo concetto verrà largamente affrontato con il personaggio del Batman che Ride di Snyder e Capullo nel maxi-evento "Dark Nights: METAL", pur lasciando il tempo che trova a livello di spessore psicologico e riducendosi a mero fanservice. Interessante anche l’iconografia usata per la realizzazione del Joker, visto come qualcosa di simile all’umano, ma disumano, demoniaca, una visione ampliata e portata ai suoi estremi proprio nelle opere dei prima citati Scott Snyder e Greg Capullo.
Joker, sempre riferendosi alle opere di Miller, così come ogni personaggio del fumetto, si fa anche manifesto di una critica alla sinistra americana, dopotutto il suo ritorno è frutto dell’azione di un liberale di sinistra, il suo psicologo, che critica la visione di destra del cavaliere oscuro, visto come un conservatore autoritario al limite col fascismo (come ironizza lo stesso Joker nel brillante “Batman: Europa” vol. 1 n. 4 di Matteo Casali, Giuseppe Camuncoli, Gerald Parel e Brian Azzarello). Un ruolo che cambia completamente nel più recente “The Golden Child” dove, invece, viene visto come un supporter di Trump e della destra populista americana, come in un’evoluzione del personaggio dovuta ad una diversa necessità politica percepita, in quest’epoca, da Frank Miller.
Visioni politiche, condivisibili o meno, dell’autore a parte, il concetto prima citato del Joker (così come dei vari altri personaggi) come necessarie manifestazioni della loro interiorità si può ricollegare ad una delle più quotate analisi psicologiche del personaggio del clown principe del crimine, quella di Carl Jung. Quest’ultimo, uno psicologo assai discusso del ventesimo secolo, ipotizza che, all’interno di ogni individuo, vi sia quella che viene chiamata “Ombra”, una sorta d’indole malvagia che porterebbe per natura l’uomo ad agire contro le regole imposte o le norme a cui deve sottostare. L’”Ombra” viene però controbilanciata dall’Illusione di Superiorità che porta le persone a credere di agire nel miglior modo possibile e di presupporre di non essere incline a cedere a tentazioni negative. Proprio il negare la propria “Ombra”, però, la rafforza, portando l’individuo a divenire essa. Ciò è chiaramente visibile in “The Killing Joke” dove il clown pare cercare di mettere in pratica tale teoria su Gordon, in modo da dimostrare che la sanità di cui tutti si fanno crogiolo sia solo un’illusione, una presunzione e di come, dentro ognuno, perfino nello stesso Batman, come evidenziato dalla lettura delle opere di Miller, ci sia un piccolo Joker in attesa di fuoriuscire. Per questo, forse, il personaggio ha ricevuto tale successo: manifesta i nostri desideri più intimi di chaos e distruzione, di rottura delle regole, e per questo è una figura tanto potente a livello sociale. La visione dell’”Ombra” è stata inoltre ripresa brillantemente da “Telltale Batman: The Enemy Within” con la distruzione dell’ideale di Giustizia che porta il clown a divenire o una versione corrotta di Batman o il suo opposto, disilluso da un ideale che dava per scontato. Ancora più subdolo, forse, il modo in cui viene trattato in “Batman: White Knight” di Sean Gordon Murphy dove lo stesso Joker s’inganna di una vita normale e dove, il trauma che gli da origine, è la perdita stessa della sua sanità mentale, la morte di Jack Napier, in una tragedia che fa brillantemente eco all’ispirazione originale di Joker (“L’uomo che ride”) di una buona persona costretta dentro un bozzolo deforme e, in questo caso, malvagio, contro la sua volontà e senza alcuna speranza di scappare dal suo fato maledetto, come se fosse un'incarnazione dello scontro tra giustizia sociale e stato di natura di Hobbes, della crudeltà umana.
Visioni politiche, condivisibili o meno, dell’autore a parte, il concetto prima citato del Joker (così come dei vari altri personaggi) come necessarie manifestazioni della loro interiorità si può ricollegare ad una delle più quotate analisi psicologiche del personaggio del clown principe del crimine, quella di Carl Jung. Quest’ultimo, uno psicologo assai discusso del ventesimo secolo, ipotizza che, all’interno di ogni individuo, vi sia quella che viene chiamata “Ombra”, una sorta d’indole malvagia che porterebbe per natura l’uomo ad agire contro le regole imposte o le norme a cui deve sottostare. L’”Ombra” viene però controbilanciata dall’Illusione di Superiorità che porta le persone a credere di agire nel miglior modo possibile e di presupporre di non essere incline a cedere a tentazioni negative. Proprio il negare la propria “Ombra”, però, la rafforza, portando l’individuo a divenire essa. Ciò è chiaramente visibile in “The Killing Joke” dove il clown pare cercare di mettere in pratica tale teoria su Gordon, in modo da dimostrare che la sanità di cui tutti si fanno crogiolo sia solo un’illusione, una presunzione e di come, dentro ognuno, perfino nello stesso Batman, come evidenziato dalla lettura delle opere di Miller, ci sia un piccolo Joker in attesa di fuoriuscire. Per questo, forse, il personaggio ha ricevuto tale successo: manifesta i nostri desideri più intimi di chaos e distruzione, di rottura delle regole, e per questo è una figura tanto potente a livello sociale. La visione dell’”Ombra” è stata inoltre ripresa brillantemente da “Telltale Batman: The Enemy Within” con la distruzione dell’ideale di Giustizia che porta il clown a divenire o una versione corrotta di Batman o il suo opposto, disilluso da un ideale che dava per scontato. Ancora più subdolo, forse, il modo in cui viene trattato in “Batman: White Knight” di Sean Gordon Murphy dove lo stesso Joker s’inganna di una vita normale e dove, il trauma che gli da origine, è la perdita stessa della sua sanità mentale, la morte di Jack Napier, in una tragedia che fa brillantemente eco all’ispirazione originale di Joker (“L’uomo che ride”) di una buona persona costretta dentro un bozzolo deforme e, in questo caso, malvagio, contro la sua volontà e senza alcuna speranza di scappare dal suo fato maledetto, come se fosse un'incarnazione dello scontro tra giustizia sociale e stato di natura di Hobbes, della crudeltà umana.
L’”Ombra” di Jung trova, appunto, un parallelo filosofico con il sopraccitato stato di natura di Thomas Hobbes, inteso come quello di un conflitto totale tra uomo contro uomo (bellum omnium contra omnes) dove chiunque diviene il lupo per il prossimo (homo homini lupus). La soluzione a questa situazione, propria dell’umanità, è l’instaurazione di una società che, per Hobbes, assume i tirannici caratteri del Leviatano. Assumendo che Joker=Ombra e che Ombra=Stato di Natura e quindi che Joker è la manifestazione di quella condizione propria dell’uomo soppressa dalla società, possiamo creare un collegamento tra Batman ed il Leviatano, colui che riduce l’impatto del criminale e che ne delimita le azioni, dopotutto è lui il protagonista dell’opera, è lui attorno al quale l’universo narrativo si muove e che, dunque, limita la portata delle azioni del clown principe del crime, sempre sottostanti alla figura del suo rivale, ricollegandoci alla visione ipertestuale di Morrison. Proprio quest’ultimo asserisce che Batman è la scatola dentro la quale Joker si muove e che, nel momento in cui quest’ultimo riesce a fuoriuscirne, il primo la ricompone, ancora più grande, in un loop infinito che porta al tanto noto conflitto eterno tra i due personaggi, uno stato di dipendenza mutuale ed imprescindibile.
Illustrazione originale di Cristiano Baricelli |
Le azioni di Joker non hanno dunque una matrice materiale, come accentua la sua interpretazione donata da Heath Ledger, ma è un puro sforzo anarchico, all’apparenza disumano, ma solo in quanto carico di una profonda umanità che non vogliamo concepire come tale, ombra del malcontento della società in cui vive ed opera, parafrasando il Jerome Valeska interpretato da Cameron Monaghan. Un personaggio terribilmente umano, come lo definisce Morrison, dunque, non tanto per il trauma che lo ha generato, non tanto per la sua comprensione della realtà fittizia in cui opera, bensì per il suo farsi portavoce di uno stato di natura prettamente umano, di una realtà inconscia che abita tutti noi e che cerca di venire a galla in ogni modo. Joker è lo specchio di noi stessi, dei nostri sogni più oscuri, della società in cui viviamo e di ciò che ci spaventa, ma che allo stesso tempo ci attrae.
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