lunedì 27 aprile 2020

L'horror spiazzante ed incomprensibile dal Giappone (Recensione "Hausu")

Tra il Giappone e l’orrore c’è sempre stato un rapporto morboso, sadico, crudele e, in fondo, profondamente sincero. Abbiamo già parlato di come l’horror abbia fatto la sua prepotente comparsa nei media d’intrattenimento nipponici, dai manga, all’animazione per poi arrivare, ovviamente al Cinema, tanto che, molto spesso, ci si riferisce al J-Horror quasi come ad una categoria appartenente esclusivamente al panorama cinematografico.

Ma perché si è sentita la necessità di fare una distinzione netta fra l’Horror tradizionale e quello giapponese? Principalmente per una questione di stile. Il cinema horror giapponese ha una sua voglia intrinseca, e profondamente innata di mettere in scena dei soggetti totalmente sui generis rispetto ai collaudati espedienti dell’horror classico occidentale. Storie strane, spesso molto strane unite a chiari e profondi riferimenti alla storia, alla cultura ed ai miti della propria terra, una messa in scena particolare e  un modo di mettere su schermo la tensione con espedienti registici tipici di generi diversi dall’horror sono solo alcuni dei caratteri che sono riscontrabili in queste opere, i quali li differenziano dall’horror che normalmente siamo abituati a vedere. 
Uno degli esempi più lampanti e, se vogliamo, estremi di questa profonda differenza di stile “territoriale”  è sicuramente House o Hausu se vogliamo chiamarlo con la sua pronuncia locale.     
  
È il 1975 quando la Toho, la storica compagnia cinematografica giapponese, decide di compiere un’operazione estremamente in voga in quel periodo, ovvero quella di cavalcare l’onda del successo de “Lo Squalo “ di Spielberg.  Dietro la macchina da scrivere viene scelto, forse per sua decisione personale, Nobuhiko Obayashi, regista che si era guadagnato da vivere con i particolari spot pubblicitari che vedevano la comparsa di famosissime star di Hollywood, quali Charles Bronson, Kirk Douglas o Sean Connery e che riscuotevano grandissimo successo tra gli spettatori del Sol Levante.    
Senza dare troppo conto alle direttive della casa di produzione, Obayashi decide di trovare ispirazione seguendo le idee della sua giovane figlia Chigumi, che rappresentavano le sue più assurde paure di quando era bambina. Sarà una scelta profondamente importante per la genesi della pellicola, che, unite alle tematiche più profonde del padre, quali i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki (da lui vissuti in prima persona, essendo nativo della prima cittadina) e la Seconda Guerra Mondiale, ne detterà in maniera definitiva il tono generale da seguire.  Nessun regista al quale la Toho propose la sceneggiatura si dichiarò interessato al progetto, fatto che portò lo stesso Obayashi ad offrirsi per quel ruolo, sebbene avesse alle spalle, oltre agli spot, soltanto un cortometraggio girato nel 1964. Dopo il successo degli omonimi radio-drama e manga, entrambi tratti dalla sceneggiatura del film, la Toho dette il via libera per le riprese, anche grazie alla voglia, sulle parole dello stesso produttore Yorihiko Yamada, di voler dar vita ad un opera totalmente spiazzante e, in un certo senso, incomprensibile. Due definizioni sicuramente azzeccate.
Un gruppo di sette studentesse decide di passare le vacanze nella vecchia casa della zia di una di loro, la giovane Oshare. Una volta arrivate alla magione, inizieranno ad essere vittime di strani ed inquietanti avvenimenti, dei quali, forse, solo la vecchia proprietaria è a conoscenza. Da questa breve sinossi si nota come, a livello profondamente basic, il regista si sia appoggiato ad un espediente usato infinite volte all’interno del genere: la casa stregata. Non è quindi il cosa che garantisce questa grande differenza stilistica del J-Horror e, soprattutto, della pellicola in questione, ma il come. Il punto di forza principale del film è, difatti, la messa in scena profondamente bizzarra, dai fondali multicolore, spesso resi in modi che si noti volutamente la loro artificialità, quasi il regista volesse farci credere ci trovassimo in un sogno, con arcobaleni disegnati come farebbe un bambino nell’ora del disegno, o treni resi con di ritagli di cartoncino, animati tramite passo-uno.        
Uno stile, questo, che era riscontrabile anche negli spot coi quali Obayashi aveva formato il callo della sua esperienza filmica anche dal punto di vista puramente registico. La tecnica del film, sia per quanto riguarda il gusto delle inquadrature che il montaggio, è totalmente figlia di questa sua esperienza nei commercial-tv. Da questo punto di vista il film è estremamente originale, con campi-controcampi messi in scena in una sola inquadratura, sovrapponendo fra di loro totali a due e primi piani o subjective shot dove vengono alternate due inquadrature estremamente simili fra loro che scopriamo essere i due punti di vista diversi di entrambi gli occhi del personaggio che guarda, simulando ciò che realmente succede quando alterniamo la visuale dell’occhio destro e del sinistro. Sul fronte degli effetti speciali, curati dallo stesso regista, si fa un uso massiccio del chroma-key, in alcune sequenze utilizzato in maniere assolutamente particolare, con barattoli di vernici blu rovesciati sull’attrice in modo da realizzare la scena in cui questa, lentamente, si dissolve all’interno dell’acqua sanguigna che vediamo invadere la casa verso la fine del film. 
Non c’è dubbio che questa atmosfera profondamente weird che si ha durante tutti i 90 minuti di durata del film, non fa altro che incentivare una sensazione di profondo disturbo nello spettatore, una sensazione di marcio, dove l’incomprensibilità delle scene, il gore ed il tono scanzonato che si respira nella maggior parte della pellicola (con tanto di musica soft-rock durante i titoli di coda) formano un mix che destabilizza lo spettatore, portandolo su frangenti mai esplorati fino a quel momento, estremamente stranianti ma, a modo loro, affascinanti.

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