"Disseppellitelo... disseppellitelo vi prego,
disseppellitelo... tiratelo fuori da quel terreno!"
Siamo nel 1983, e ben sette anni sono passati dall'uscita in sala di La Casa dalle Finestre che Ridono, uno dei più grandi capolavori della storia del cinema horror italiano e, forse, di tutti i tempi firmato Pupi Avati, e, da quel lontano 1976, la mano del regista emiliano non era ancora stata messa al servizio di alcuna pellicola puramente horror come la suddetta, dirigendo tre film fra il giallo (Tutti defunti... tranne i morti), il drammatico (Aiutami a sognare) ed il fantastico (Le strelle nel fosso). Dopo l'uscita nelle sale del Capolavori di Romero, Dawn of the Dead (Zombi per la distribuzione nostrana) nel 1978, il genere dei morti viventi subisce un boom clamoroso, invadendo tutto il decennio seguente, e diventando, probabilmente, il sottogenere horror più in voga, contendendosi il primato con lo slasher.
Lo stesso Avati decide di cavalcarne l'onda, sviluppando una scenggiatura in compagnia del fidato fratello Antonio e del sempre presente Maurizio Costanzo, che già avevano contribuito a rendere grande il Capolavoro del '76. E Eosì, nel 1983 fa la sua comparse nelle sale italiana Zeder, il grande ritorno di Pupi Avati all'horror.
Stefano, uno scrittore di Bologna (Gabriele Lavia) scopre, all'interno di una vecchia macchina da scrivere, le registrazioni di due misteriose lettere riguardanti delle strane ricerche di un certo dottor Zeder su quello che viene definito “Terreno K”, una zona che si dice essere in grado di riportare in vita i morti che vengono seppelliti sotto di esso e, insieme alla fidanzata Alessandra (Anne Canovas), decide di indagare sulla questione.
È facile pensare che il pubblico dell'epoca ne sia rimasto, in un certo senso, spiazzato. La pellicola, sebbene abbia nel suo intreccio l'elemento dei morti che tornano in vita, è tutto fuorché uno zombie movie nel senso generico del termine. Non c'è nessun contagio, nessuna casa assediata dai morti viventi, nessuna atmosfera pre o post apocalittica, e la presenza del sangue, indispensabile in questo tipo di opere, è veramente ridotta all'osso. Avati torna alle origini del genere, facendo della semplice idea del “morto che ritorna in vita”, la fonte primaria di paura. Ci troviamo, quindi, più dalle parti di film alla “L'isola degli Zombies” piuttosto che da quelle delle opere di stampo Romeriano.
La tensione è tutta al servizio della regia e del montaggio, grazie ai quali si ha più paura di quello che potrebbe succedere nell'immediato, piuttosto che di quello che effettivamente succede. Grazie a questo suo particolare “modo di porsi”, la maggior parte delle morti del film avvengono fuori campo, ampliando la sensazione di terrore dello spettatore, grazie alla presenza dell'elemento misterioso che fruisce da incentivo, caricando di potenza più concettuale che puramente visiva la scena.
Come per La Casa dalle Finestre che Ridono, l'ambientazione gioca un ruolo fondamentale, trascinando lo spettatore nei meandri rurali della bassa padana, stavolta alternati con gli ambienti urbani di Bologna e Rimini. Come nella precedente pellicola del cineasta Bolognese, per gran parte del film non si ha nessun elemento concerto che trasmetta terrore negli occhi di chi guarda, il quale, tuttavia, riesce a captare una sensazione di sporco, di marcio, di meschino che si fa man mano più forte, fino al finale folle, e in un certo senso delirante, nel quale la gigantesca tenuta abbandonata dell'ex colonia estiva, sorta sulla rena di quel “Terreno K” dalle sovrannaturali caratteristiche, diventa la massima rappresentazione visiva di tutte quelle sensazioni scomode provate nell'ora precedente.
I morti, inoltre, quasi mai vengono visti uccidere il malcapitato di turno, a differenza dei vivi ricercatori, che decidono di mettere fine a chiunque decida di frapporsi fra loro ed i loro studi su questi eventi innaturali, dando vita (perdonate l'ironia di questa espressione) ad una concezione del genere estremamente originale, che si va ad unire persino alle strizzatine d'occhio alla Finestra sul Cortile del sommo maestro britannico che è superfluo nominare.
Un'opera forse meno convenzionale della precedente, assolutamente più personale e, forse per questo, spiazzante e che, probabilmente, ha affascinato persino Stephen King nella realizzazione del suo Pet Semetary.
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