martedì 31 marzo 2020

I freaks che rivoluzionarono il cinema e la piaga della censura

Nel 1932 uscì nelle sale statunitensi un film così controverso che venne tagliato ben un terzo della pellicola: "Freaks", ispirato alla short story “Spurs” di Tod Robbins. Il film parlò del tema delle deformità fisiche rendendo le persone con tali caratteristiche protagonisti del film, motivo per il quale fu soggetto di scandalo da parte del pubblico di quei tempi e segnò la carriera del regista, Tod Browning, ma andiamo con ordine.
In un circo, un uomo affetto da nanismo di nome Hans si infattua della trapezista Cleopatra, donna bellissima e “normale”, la quale sembra ricambiare gli stessi sentimenti per Hans, ma lei in verità vuole solo approffitarsene essendo che l’uomo è ricco, ma quello che la donna ha scordato è la regola dei freaks: se fai del male ad uno, ne fai a tutti... 

I protagonisti del film e la maggior parte dei personaggi sono attori che hanno avuto realmente quelle caratteristiche fisiche, i quali hanno lavorato nel mondo del circo. Alcune dei personaggi sono Hans e la sua ragazza Freida (che nella vita reale erano fratello e sorella chiamati Harry e Daisy Earles), entrambi affetti da nanismo, le gemelle siamesi Violet e Daisy Hilton e Schlitzie, affetto da microcefalismo. Altri personaggi fanno parte della pellicola con più ecclatanti caratteristiche, come una donna senza braccia o un uomo privo di gambe. Nonostante fosse uscito nel 1932, il regista ha voluto rendere ben chiaro il fatto di non voler rappresentare i personaggi come terrificanti o essere ripugnanti, anzi, volle concentrarsi sul loro stato d’animo e i loro sentimenti, ripetendo più e più volte che anche i freaks provano le stesse emozioni di qualunque altro. 
Piuttosto, il vero orrore della pellicola sono i due antagonisti, Cleopatra e il fidanzato di lei, il forzuto Ercolo, che provano disgusto e ribrezzo verso i loro colleghi, a tal punto da prenderli in giro in maniera molto forte ed esprimere il loro disgusto in un’iconica scena del film. Insomma, in questo caso i veri freaks sono proprio le persone che possono essere definite normali. Questa confilitto tra i freaks e i due antagonisti, che potrebbero simboleggiare la persona media di quei anni (e purtroppo, anche dei giorni nostri), può essere racchiusa da una frase di Frieda: “To me, you're a man. But to her, you're only something to laugh at.” (“Per me, sei un uomo. Ma per lei, sei solo qualcosa per cui ridere”).

Il film è anche famoso per far parte del periodo chiamato “Pre-code”: un’era che prese luogo tra il 1929 con l’implemento dell’audio nelle pellicole, e intorno al 1934-1935, anno in cui vennero instaurate delle regole che limitavano le produzioni cinematrogafiche, chiamate  “Production Code”. Ma nonostante questa cosidetta libertà da parte dei registi, il film venne censurato di ben trenta minuti dopo una proiezione di prova che non andò bene: molti corsero via dalla sala, mentre una donna afferma di aver subito un aborto spontaneo e aver minacciato la MGM, casa produttrice, di una denuncia.  Le parti mancanti sono andate perdute ma comunque abbiamo delle informazioni a riguardo: Si dice che ci siano state delle scene comiche tagliate, così come più interazione tra Phroso e Venere e soprattutto, interazione tra quest’ultima ed Ercolo, che avrebbe portato allo scontro che c’è ancora nella pellicola. C’è anche un prologo diverso rispetto a quello del film, che sembra essere più lungo.
Ma la parte più succulenta tagliata è sicuramente il finale: dopo che Cleopatra è scappata nei boschi, un fulmine colpisce un albero e la fa rimanere intrappolata, facendosi raggiungere dai freaks che la torturano facendola urlare a tal punto da farsi sentire dagli altri uomini, che appena vedono le sue condizioni ne rimangono terrificati. Nel frattempo, i freaks cercano Ercolo, il quale si era nascosto dentro un caravan, ma i freaks riescono a scoprirlo e in quel momento la scena finisce. 

Tre anni dopo, Venere e Phroso si sono sposati e vivono a Londra, ma decidono di andare a trovare Madame Tetrallini, che racconta loro di come Hans e Freida abbiano avuto un bambino, per poi portarli ad una mostra dei freaks:  la donna fa vedere ciò che è diventata Cleopatra, una donna-papera che sembra non avere nessun ricordo e incapace di capire qualsiasi cosa, che come scena rimane anche nella versione tagliata del film. Poi, la scena si sposta su un palco dove vediamo un Ercolo effemminato che canta in soprano, facendo capire che quella notte fosse stato castrato. Il film si conclude con Ercolo che canta la canzone The Rosary, con un quack! in sottofondo, provocato da quella che una volta era Cleopatra.
Nonostante questi tagli, il film fu un fiasco al botteghino e segnò il declino della carriera di Tod Browning. Soltanto negli anni sessanta il film venne riaprezzato e considerato come un film cult. Diciamo che per le MGM fu quasi un umiliazione questo film, essendo l’unico ad essere stato ritirato dalle sale prima del prevvisto. Ma anche durante la produzione ci sono stati problemi: molti lavoratori evitarono i freaks il più possibile e dopo alcune discussioni, li fecero mangiare in una sala diversa dallo staff, tenendo solo le gemelle siamesi e Freida e Hans nel loro tavolo. 

Purtroppo, a causa di questi tagli il film risulta troppo breve e nel finale, troppo frettoloso: infatti, sono la parte più “dinamica”, ossia il finale, risulta quasi insoddisfacente a causa della sua limitata durata e del suo brusco epilogo. Il resto del film, invece, risulta gradevole nonostante sarebbe potuto essere interessante vedere qualche scena di un esibizione. Lodevole il fatto che abbiano trattato i personaggi nella maniera più normale possibile: c’è una scena in cui un uomo senza gambe nè braccia riesce ad accendersi una sigaretta con la bocca, cosa che può essere impressionante, ma il film non la fa intendere come clamoroso, ma come una cosa normale e genuina, facendoti prestare attenzione al dialogo che all’atto in sè. 
Freaks” è un film troppo avanti per il suo tempo, e quasi quasi anche per i giorni nostri, che come sappiamo non mancano i pregiudizi per queste persone e vengono sempre denigrati, ma come questo film di quasi novant’anni fa insegna, bisogna andare oltre le apparenze e non dare un giudizio solamente all’aspetto di una persona.

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lunedì 30 marzo 2020

Quando il morto vivente fa paura (Recensione "Zeder")

"Disseppellitelo... disseppellitelo vi prego, 
disseppellitelo... tiratelo fuori da quel terreno!"

Siamo nel 1983, e ben sette anni sono passati dall'uscita in sala di La Casa dalle Finestre che Ridono, uno dei più grandi capolavori della storia del cinema horror italiano e, forse, di tutti i tempi firmato Pupi Avati, e, da quel lontano 1976, la mano del regista emiliano non era ancora stata messa al servizio di alcuna pellicola puramente horror come la suddetta, dirigendo tre film fra il giallo (Tutti defunti... tranne i morti), il drammatico (Aiutami a sognare) ed il fantastico (Le strelle nel fosso). Dopo l'uscita nelle sale del Capolavori di Romero, Dawn of the Dead (Zombi per la distribuzione nostrana) nel 1978, il genere dei morti viventi subisce un boom clamoroso, invadendo tutto il decennio seguente, e diventando, probabilmente, il sottogenere horror più in voga, contendendosi il primato con lo slasher. 
Lo stesso Avati decide di cavalcarne l'onda, sviluppando una scenggiatura in compagnia del fidato fratello Antonio e del sempre presente Maurizio Costanzo, che già avevano contribuito a rendere grande il Capolavoro del '76. E Eosì, nel 1983 fa la sua comparse nelle sale italiana Zeder, il grande ritorno di Pupi Avati all'horror.

Stefano, uno scrittore di Bologna (Gabriele Lavia) scopre, all'interno di una vecchia macchina da scrivere, le registrazioni di due misteriose lettere riguardanti delle strane ricerche di un certo dottor Zeder su quello che viene definito “Terreno K”, una zona che si dice essere in grado di riportare in vita i morti che vengono seppelliti sotto di esso e, insieme alla fidanzata Alessandra (Anne Canovas), decide di indagare sulla questione.
È facile pensare che il pubblico dell'epoca ne sia rimasto, in un certo senso, spiazzato. La pellicola, sebbene abbia nel suo intreccio l'elemento dei morti che tornano in vita, è tutto fuorché uno zombie movie nel senso generico del termine. Non c'è nessun contagio, nessuna casa assediata dai morti viventi, nessuna atmosfera pre o post apocalittica, e la presenza del sangue, indispensabile in questo tipo di opere, è veramente ridotta all'osso. Avati torna alle origini del genere, facendo della semplice idea del “morto che ritorna in vita”, la fonte primaria di paura. Ci troviamo, quindi, più dalle parti di film alla “L'isola degli Zombies” piuttosto che da quelle delle opere di stampo Romeriano.  

La tensione è tutta al servizio della regia e del montaggio, grazie ai quali si ha più paura di quello che potrebbe succedere nell'immediato, piuttosto che di quello che effettivamente succede. Grazie a questo suo particolare “modo di porsi”, la maggior parte delle morti del film avvengono fuori campo, ampliando la sensazione di terrore dello spettatore, grazie alla presenza dell'elemento misterioso che fruisce da incentivo, caricando di potenza più concettuale che puramente visiva la scena.
Come per La Casa dalle Finestre che Ridono, l'ambientazione gioca un ruolo fondamentale, trascinando lo spettatore nei meandri rurali della bassa padana, stavolta alternati con gli ambienti urbani di Bologna e Rimini. Come nella precedente pellicola del cineasta Bolognese, per gran parte del film non si ha nessun elemento concerto che trasmetta terrore negli occhi di chi guarda, il quale, tuttavia, riesce a captare una sensazione di sporco, di marcio, di meschino che si fa man mano più forte, fino al finale folle, e in un certo senso delirante, nel quale la gigantesca tenuta abbandonata dell'ex colonia estiva, sorta sulla rena di quel “Terreno K” dalle sovrannaturali caratteristiche, diventa la massima rappresentazione visiva di tutte quelle sensazioni scomode provate nell'ora precedente. 

I morti, inoltre, quasi mai vengono visti uccidere il malcapitato di turno, a differenza dei vivi ricercatori, che decidono di mettere fine a chiunque decida di frapporsi fra loro ed i loro studi su questi eventi innaturali, dando vita (perdonate l'ironia di questa espressione) ad una concezione del genere estremamente originale, che si va ad unire persino alle strizzatine d'occhio alla Finestra sul Cortile del sommo maestro britannico che è superfluo nominare.
Un'opera forse meno convenzionale della precedente, assolutamente più personale e, forse per questo, spiazzante e che, probabilmente, ha affascinato persino Stephen King nella realizzazione del suo Pet Semetary.

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domenica 29 marzo 2020

Il distruttore della vita (Recensione S.H. MonsterArts Destoroyah Special Color Version)

Il mondo dei collezionisti di figures è un mondo affascinante e sempre vivo, portato avanti da una passione di fondo innegabile o riproducibile in qualsiasi altro ambito. Proprio per questo, il nostro Lorenzo Tagliatti, collezionista di figures di draghi, kaiju e mostri, ci guiderà in questo affascinante mondo, fornendo consigli e raccomandazioni, a tutti gli aspiranti collezionisti o a quelli che già lo sono:

In primis mi sembra obbligatorio presentarvi Destoroyah in tutta la sua magnificenza; sicuramente uno degli antagonisti più potenti e feroci che Godzilla abbia mai dovuto fronteggiare, non per niente viene chiamato il Distruttore della Vita seppur apparve in un solo film “Godzilla vs Destoroyah" del 1995. Per quanto a prima vista lo si possa identificare come un kaiju simile ad un demone/drago, la sua vera natura è crostacea, infatti agli inizi era un piccolissimo crostaceo mutato grazie all’Oxygen Destroyer (arma usata per uccidere Godzilla nel suo primo film del 1954) da cui chiaramente prende il nome.  Questi piccolissimi organismi, raggruppandosi, riescono ad assumere forme più grandi ed evolute, come si vedrà nel film, perché questa che vedete è la forma finale di Destoroyah, prima di questa assunse altre tre forme: due terrestri simili a ragni o scorpioni e una aerea abbastanza dragonesca. Tutte quante dettero del filo da torcere a Godzilla e suo figli, ma ovviamente non bastarono nel suo scopo, coatringendolo ad evolvere ancora.
La figure è una delle più belle figure della linea S.H. MonsterArts, ossia, per per chi non lo sapesse, una nuova serie di figure standard che incorpora l’“arte” delle action figure BANDAI sotto il tema di “perseguire l’espressione del personaggio attraverso l'azione dei mostri”.

La mia è una special color version ossia una ri-edizione con colori diversi dalle prime che misero in commercio, questa differisce per una tonalità della pelle molto più scura e corno ed occhi gialli al posto di quelli tendenti al rosso/nero dell’originale, in più, al contraio della prima edizione, sprovvista di accessori (perché come vedremo in future recesioni alcune figure ne possiedono), questa in dotazione ha 8 Maser Tank divisi in due tipi ossia 4 e 4, utili per ricreare scene del film in caso si voglia costruire un diorama.
È comunque necessario precisare che queste figure non sono giocattoli e che quindi vanno maneggiate con estrema cura, specailmente questa, perché sono molto delicate e quindi non adatte ad essere sballottate a destra e sinistra: il loro scopo è puramente addetto al collezionismo e alla creazione di diorama. 

Per chi non lo sapesse un diorama non è altro che la ricostruzione in miniature di un paesaggio di qualunque genere dove chi lo assembla si diverte a ricreare scene ispirate a film, cartoni animati o semplicemente anche dalla natura stessa o scene di vita quotidiana, ovviamente più le miniature sono in scala fra loro più il tutto risulta bello. Ha origini greche, ma si sono diffusi grazie ai giapponesi che hanno una dote naturale a realizzarli. Per quanto mi riguarda è divertentissimo crearli e metterci dentro dei mostri giganti ricreaando le mie scene preferite dei film che ho guardato.
Questo modello è uno dei più fedeli al personaggio disponibili, alto più o meno 22 cm, apertura alare di quasi 40 e all’incirca una trentina da testa alla punta della coda, insomma abbastaza imponente a vedersi rispetto le classiche figure; è finemente dettagliato e molto articolato, presenta articolazioni in tutte le parti del corpo dalla punta della coda formata da 11 segmenti  e dalle due parti che formano la tenaglia alla fine di essa, alle 3 zanne posizionate ai lati delle fauci. Consiglio particolare attenzione con quelle, è facilissimo perderle. Le spalle collegano braccia e ali che, come si può vedere dalle foto, sono un blocco unico pieno di punti articolati, da artigli, polso e gomito fino ad ogni segmento della menbrana alare, anche il secondo paio di ali può ruotare e piegarsi leggermente.

I giunti delle gambe, più che per una funzione di piegatura, che c’è, ma accennata, fungono da rotazione, e lo stesso vale per quello del busto che consente lievi movimenti. Infine abbiamo la testa a partire dal collo formato da 4 segmenti, capaci di far piegare e ruotare la testa in varie direzioni, mentre il capo oltre al giunto attaccato al collo presenta le zanne ai lati nominate precedentemente e la mandibola inferiore fissata tramite un giunto sferico che oltre alla funzione apri/chiudi permette anche una sorta di inclinatura, quasi come quella che si ha quando si riceve un pugno in faccia.
Un pezzo da collezione di quelli tosti, ma, ovviamente, non gratis. Il signorino in questione è costato circa 140 euro, ma questo qualche anno fa. Precisamente, infatti, è un prodotto del 2017. La figure vale comunque tutti i soldi del suo prrzzo, ma ora come ora, se aveste la fortuna di trovarlo nuovo, il prezzo si avvicinerebbe o potrebbe superare i 200 euro.

Ultima cosa che in caso potrebbe incoraggiarvi a fare la pazzia è che un mio caro amico possiede la prima versione di  questa figure, lui non è fan di questa tipologia di ali forse un po’ scomoda lo ammetto anche io, ma d’effetto, mi ha comunicato che essendo una delle prime, le sue giunture non sono il massimo e, informadosi, crede che oltre ai colori diversi e gli 8 carriarmati, questa versione che possiedo (quindi la ri-edizione) sia anche più solita, infatti la sua presenta articolazioni deboli e i 7 segmenti da cui sono formate le ali erano così poco stabili che è stato costretto ad incollarli rinunciando alla mobilità. Suggerirei, quindi, che un pensierino a riguardo lo si possa fare. 
Spero che questa recesione vi sia stata utile rendondovi le idee più chiare in caso vogliate fare qualche pazzia!

Articolo di Lorenzo Tagliatti, revisione di Robb P. Lestinci

sabato 28 marzo 2020

Il cinema che denuncia ed innova - Una breve analisi di "Arancia Meccanica"

Correva l’anno 1971 quando nelle sale cinematografiche di tutto il mondo usciva il film Arancia Meccanica, considerato, ancora oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, uno dei capolavori indiscussi della storia del cinema. Diretto dal regista statunitense Stanley Kubrick, questi adopera come soggetto per la sceneggiatura della pellicola il romanzo dispotico dello scrittore Anthony Burgess, particolarmente noto alla critica per i temi da lui trattati nelle sue opere letterarie e poetiche, che vedono come protagonista l’uomo minacciato da continui ed esasperanti atti di violenza e condizionamenti ideologici. 
Quando la pellicola fece il suo debutto in tutto il mondo destò meraviglia e scalpore da parte della critica e di chi assistette alla proiezione. La critica era ancora troppo acerba per potersi rendere conto delle innovazioni che il regista tramite il suo capolavoro, riuscì ad apportare all’intera industria cinematografica. Non solo da un punto di vista tecnico ma anche da un punto di vista tematico. In molti seguirono le sue orme negli anni a venire,senza però mai ottenere i sui stessi risultati. Le innovazioni di cui parlo riguardano l’ambito della regia e della sceneggiatura le quali si intrecciano armonicamente offrendoci una complessa e magnifica pellicola unica nel suo genere. 

Alex De Large (Malcom McDowell) è un giovane teppista di strada che con i suoi tre fidati compagni di malefatte,con i quali stipula un rapporto simile a quello signore-vassallo, trascorre il tempo delle sue giornate sfogando quella violenza che gli arde dentro,su chiunque abbia la sfortuna di porsi d’innanzi a lui e a sui fidi. Il sadico criminale non è nient’altro che uno dei tanti risultati di quel difficile contesto sociale che lo circonda, la violenza diventa il solo strumento attraverso il quale può esprimere tutto se stesso, egli non ha un’ordinaria concezione di ciò che sia opportuno o non opportuno fare in una qualsiasi situazione. Il che da carnefice lo rende automaticamente nient’altro che una delle tante vittime di ingiustizia sociale, anche se agli occhi della legge le sue azioni continueranno ad apparire ingiustificate e folli al punto da causarne l’incarcerazione per crimini violenti. 
Dovendo scontare la sua pena, egli prima si appella alla fede del signore senza però riuscire nel suo intento, ovvero quello di riuscire a diventare una buona persona incapace di fare del male agli altri. Venuto poi a conoscenza di un programma che il governo Britannico aveva messo in atto,al fine di rendere criminali violenti ottimi e rispettabili cittadini, si offre volontario per sottoporsi ad una serie di strazianti esperimenti. Questi consistevano nella visione forzata da parte del soggetto di numerosi filmati di argomento vario e nell’ascolto di musiche a lui un tempo care, di quel magnifico compositore che lui era solito chiamare “mio vecchio e caro Ludwing Van”, dopo avergli però somministrato un farmaco, così che Alex potesse sviluppare un’intolleranza e disgusto a qualsiasi forma o atto di violenza. L’esperimento può definirsi in parte riuscito: il soggetto, quando è sul punto di compiere atti di estrema violenza, viene sopraffatto da un senso di nausea fortissimo che gli inibisce ogni facoltà motoria e mentale, a causa di ciò si trova costretto a modificare il suo comportamento.

Il risultato di questa barbara sperimentazione è un individuo privato del libero arbitrio costretto ad assumere un comportamento per nulla conforme alla sua vera natura. Finalmente libero, o almeno così credeva, decide ti tornare alla sua vita precedente senza far conto con le conseguenze che le sue azioni avevano provocato a quest’ultima. La sua famiglia lo ripudia, gli unici amici che aveva mai avuto erano diventati spietati poliziotti dalla giubba blu, pronti a punirlo e calpestarlo nel momento del bisogno e infine messo alle strette si ritroverà a pagare le conseguenze dei crimini commessi in passato uno dopo l’altro.
Sopraffatto dal susseguirsi degli eventi finalmente riuscirà a ritrovare il vecchio sè, grazie a coloro i quali avevano subito precedentemente soprusi e violenze da parte sua che lo avevano ripagato con la stessa dose di crudeltà, in modo da rammentargli che genere di mostro era e sarebbe sempre stato. Il fato che attende chi cerca di far prevalere la giustizia sull’ingiustizia non è di certo roseo. Non c’è spazio in questa storia per degli eroi da maschera e mantello. Egli è adesso vittima e allo stesso tempo carnefice, viene insignito di tutti i privilegi e lussi per poter essere risarcito a causa di quell’ondata di sventura dalla quale era stato sopraffatto. 

A rendere possibile ciò è lo stesso governo Britannico che aveva cercato già in passato di renderlo un cittadino modello, ma che aveva fallito nel suo intento di modificare la natura dell’essere umano. Un governo che ci viene descritto come a tratti dispotico e che cerca di far predominare il controllo da esso esercitato in tutti gli ambiti dell’ordine sociale. Questo punto costituisce la parte più originale della critica elaborata dall’autore e che il regista tramite la pellicola riesce ad infondere nello spettatore, sfortunatamente spesso arido di tematiche di questa natura. 
Malcolm McDowell (sinistra) e Stanley Kubrick (destta) sul set del film
Vorrei con questa conclusione elogiare non solo la maestosa regia, ma soprattutto la scenografia e le musiche presenti nella pellicola. Per quanto riguarda la prima essa dimostra di essere all’avanguardia, riflette i colori e il gusto dell’epoca, imponente è il richiamo in quest’ultima alla sfera sessuale ma soprattutto al profano. Per le seconde, ovvero le musiche, Kubrick fa ciò che aveva già fatto in 2001 Odissea nello Spazio, adopera componimenti di musica classica la quale si combina perfettamente con quel meraviglioso scorrere di immagini, impregnate di una maestosità senza eguali. Sono sicuro che agli occhi di molti questo possa risultare come un film superato per i nostri tempi, ma se solo per un minuto provassimo a contestualizzarlo da un punto di vista storico, ci accorgeremo della sua grande importanza. 

Ci troviamo negli anni settanta in uno dei paesi economicamente e politicamente più influenti del mondo occidentale, l’Inghilterra la quale viene attraversata da un’ondata di cambiamenti immediati. Dall’essere una delle nazioni più conservatrici del mondo occidentale diventa la culla del Punk, dello Skinhead e del Rock. Quest’opera letteraria, diventata poi film cult di quegli anni, non è nient’altro che il risultato di un cambiamento epocale. Del quale sia l’autore che il regista furono soggetti.

Articolo di Giuseppe Lafratta

venerdì 27 marzo 2020

Un paradisiaco tripudio di frattaglie demoniache (Recensione "Doom Eternal')

Dopo il successo di “DOOM” nel 2016 un sequel era inevitabile, così all’E3 2018 la Bethesda Softwork ha annunciato il nuovo capitolo della serie: “DOOM Eternal”. Originariamente programmata per il 22 novembre 2019, la pubblicazione del gioco fu rimandata al 20 marzo di quest’anno, data in cui il gioco è approdato su Steam, Xbox One, Google Stadia e Playstation 4, mentre la versione per Nintendo Switch, sviluppata da Panic Button, deve ancora ricevere una data di rilascio ufficiale. 
Il gioco è ambientato due anni dopo gli eventi di “DOOM”: la Terra è stata invasa da orde di Demoni, aiutati dall’ormai corrotta UAC, controllata dai cultisti che avevano causato l’invasione di Marte nel capitolo precedente. Il Doom Slayer, liberatosi dalla prigione in cui era stato piazzato dal Dottor Samuel Hayden in “DOOM”, ritorna a bordo di una stazione spaziale, pronto a fare nuovamente strage di demoni. Lo scopo del protagonista è quello di eliminare i tre Sacerdoti Infernali a capo delle armate infernali, a loro volta controllate da Khan Maykr, un’entità apparentemente angelica con cui lo Slayer sembra aver avuto a che fare in precedenza.

Questa volta la trama del gioco ha un ruolo molto più prominente, rallentando spesso e volentieri il gameplay a favore di inutili esposizioni. Le azioni del giocatore sono continuamente guidate, perdendo conseguentemente quel senso di liberta (seppur illusorio) che aveva caratterizzato i capitoli precedenti. L’esperienza di gioco risulta quindi estremamente lineare e piuttosto che un’avventura continua e consistente sembra essere una serie di compiti disconnessi affidati al protagonista. 
Altra critica da muovere al titolo è quella relativa alla presenza di cutscene in terza persona, che, fatta eccezione per i titoli di testa e per il finale, risultano essere fuori posto e non sembrano avere uno scopo concreto se non forse quello di evitare la presenza di schermate di caricamento. In tutti i giochi della serie di “Doom”, fatta eccezione per il terzo capitolo (considerato da molti “apocrifo”), l’avventura era interamente vissuta in prima persona, risulta quindi incomprensibile la scelta di cambiare la formula, se non per il semplice scopo di mostrare le diverse armature che è possibile indossare.
In queste cutscenes, tra antagonisti ed alleati che si perdono in monologhi interminabili, mentre l’intero modo d’intendere “Doom” viene alterato e modificato, il Doom Slayer appare impassibile a tutto ciò, come se lui, così come il giocatore, fosse ancora rimasto alla vecchia concezione del franchise: in tutta la durata del gioco, epilogo compreso, non parlerà mai, se non tramite la violenza brutale a cui è abituato, e tutti i personaggi, antagonisti  e non, sembreranno provare timore nei confronti di una forza della natura, troppo “tosta per l’Inferno” o anche solo per esser partecipe alla trama del suo stesso gioco. Il Doom Slayer non necessita di queste velleità, che siano gli altri a fare il lavoro sporco di mandare avanti il plot nei momenti in cui non si devono sbudellare demoni. 
Il gameplay rimane la parte migliore del gioco: oltre a riprendere le meccaniche del capitolo precedente, “DOOM Eternal” riesce ad apportarvi svariate migliorie. Le sezioni platform sono ora meglio integrate con i combattimenti: il giocatore potrà saltare, arrampicarsi o aggrapparsi a determinate superfici per avere un migliore controllo delle battaglie affrontate, inoltre le aree sono inoltre più aperte per consentire una maggiore libertà di movimento, ulteriormente incrementata dalla presenza del dash, che consente un ulteriore estensione delle distanze percorribili in volo. Il gioco risulta inoltre molto più punitivo del predecessore: per sopravvivere alle orde di demoni da affrontare il giocatore non potrà più buttarsi nella mischia senza pensare, ma dovrà elaborare una strategia, usare gli spazi a sua disposizione e dosare le munizioni disponibili. Altra meccanica, che si va unire a quella delle “Glory Kills” del capitolo del 2016, è la possibilità di dar fuoco ai propri nemici che causa il drop dell’armatura da parte dei corpi carbonizzati delle vittime dello Slayer. Proprio parlando di uccisioni, risulta impossibile non citare le armi che, in questo nuovo capitolo, sono ben otto, oltre alle novità come la granata congelante, che permette di potersi muovere liberamente tenendo il nemico bloccato al suo posto. Tramite le “Glory Kills” è, inoltre, possibile caricare un attacco corpo a corpo, ossia il temibile “Blood Punch”, utile per eliminare nemici fortemente corazzati come il Cyber Mancubus
L’introduzione di una vera e propria mitologia, a metà tra il cristianesimo e la fantascienza, permette, inoltre, per la prima volta nel franchise, di ritrovarsi contro a qualcosa di diverso da un demone o uno zombie (pur sempre di matrice demoniaca) anche se, a fine dei conti, tutti si riduce comunque a quello. Anche il Marauder, uno dei più temibili nemici introdotti in questo nuovo capitolo, pur essendo originariamente una Sentinella della Notte rivoltosa resuscitata, ossia un protettore della razza aliena Wraith  (già vista in “Doom 3” seppur in una diversa incarnazione), de facto ha l’apparenza di un normale demone. Anche lo stesso Khan Makyr perderà, man mano, le annotazioni angeliche che saranno, infine, solo di facciata. 
Riguardo proprio ai nemici, i design di alcuni di essi sono drasticamente cambiati: se da un lato Imp o Cacodemon non risultano drasticamente dissimili, dall’altro mostri come il Baron of Hell o il Mancubus sono profondamente diversi, risultando, in alcuni casi, semplificati nel design rispetto al capitolo precedente, meno “viscerali” e inquietanti e più solidi e “pietrosi”: le texture viscide che ricordano interiora o carne viva danno spazia ad altre dall’aspetto più duro, il rosso diventa nero e la carne da macelleria che si trascina per uccidere lo Slayer diviene una roccia incandescente pronta ad attaccare. Questo cambiamento è, comunque, in linea con il generale cambio di rotta del titolo, più improntato verso la fantascienza che mai, tra ordini di cavalieri alieni dalle armature bianche, robot e antiche civiltà extraterrestri. 
Per la gioia dei fan, comunque, due degli elementi più amati del franchise fanno il loro ritorno in grande stile: l’Icona del Peccato, leggendario boss finale del secondo “Doom”, già omaggiato in un easter nel titolo del 2016, appare per la prima volta in tutto il suo orrido splendore per un’immensa boss battle in cui lo Slayer si troverà davanti all’essere nella sua interezza e non solo come una testa in un muro grazie alle evidenti migliorie tecniche di questo nuovo capitolo, primo a poter permettere una battaglia di tale portata. L’altro ritorno, più che gradito, è quello di Daisy, il coniglio domestico del Doomguy dei titoli originale la quale morta spinge l’ex marine nella sua missione di vendetta nei confronti dell’Inferno intero. In questa nuova incarnazione, sulla falsariga del porting di Doom95 per sistemi Win9x, il coniglio è fortunatamente ancora vivo e, per giunta, presente in ogni livello, nascosto nelle mappe, così come lo è nella locandina stessa del gioco.
Proprio parlando di vecchi porting, in bundle con il titolo, una nuova versione di Doom 64 fa capolino, evolvendosi da semplice adattamento del primo capitolo della serie dalle vistose migliorie grafiche e tecniche, al vero e proprio prologo del nuovo universo del "DOOM" del 2016 e del suo sequel, con l'aggiunta di diversi livelli che fanno da ponte con il titolo Bethesda.
Un titolo che, tecnicamente, eccelle e che porta un gameplay sempre movimentato e dinamico, adattabile alle scelte di gameplay del giocatore ed ai suoi tempi ed alle sue strategie, accompagnato dalla solita leggendaria colonna sonora heavy metal sensibile al ritmo delle azioni sullo schermo, ma che, forse, richiederà un impegno da parte dei fan hardcore di “Doom”: adattarsi ad una nuova concezione del franchise, riuscire a lasciar andare la nostalgia e che, così come tutto, anche la serie di John Carmack, prima o poi, avrebbe dovuto subire un’evoluzione e, forse, questa è la migliore delle possibili. 
For Daisy

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giovedì 26 marzo 2020

Un ritorno glorioso (Recensione "DOOM")

Le prime notizie su un sequel di Doom 3 risalgono al QuakeCon del 2007: durante l’evento il cofondatore della id Software, John Carmac, confermò che la software house aveva dato inizio allo sviluppo di Doom 4, titolo che sarebbe stato ufficialmente annunciato nel maggio dell’anno successivo. Negli anni successivi lo sviluppo si dimostrò particolarmente arduo e travagliato e i numerosi problemi riscontrati culminarono nel 2012, anno in cui Doom 4 subì un redesign radicale, che fece del titolo un reboot piuttosto che un sequel. Il 13 maggio 2016 il gioco fu finalmente pubblicato per piattaforma Windows, Playstation 4 e Xbox One con il semplice nome di DOOM.
Il titolo è ambientato su Marte, dove la Union Aerospace Corporation (UAC) ha aperto un portale verso la dimensione dell’Inferno, causando un’invasione di demoni, i quali hanno sterminato il personale del complesso di ricerca stanziato sul pianeta. Dopo una breve e criptica introduzione il nostro protagonista, il Doom Slayer, si risveglia incatenato ad una specie di sarcofago e, dopo essersi liberato e aver ucciso alcuni demoni che avevano tentato di attaccarlo, ritrova la sua iconica armatura; dopo averla indossata il nostro protagonista si fa strada fino alla superficie del pianeta, pronto a sterminare gli invasori e a chiudere una volta per tutte il portale.
A differenza dei capitoli precedenti il gioco presente una trama più definita, che contestualizza meglio gli eventi di cui il giocatore è testimone: tramite vari messaggi lasciati dagli impiegati dell’UAC sarà possibile ottenere informazioni sulle cause dell’invasione, le motivazioni di chi l’ha causata e persino sul passato del Doom Slayer (sebbene in quest’ultimo caso risultino piuttosto vaghe).

Molti dei mostri storici della serie faranno ritorno, quali il Cacodemone, il Barone Infernale o il Revenant, ma il giocatore incontrerà anche nuovi nemici, come l’Hell Razer, demone dalle sembianze umanoidi che attaccherà a distanza sparando proiettili di energia, la Hell Guard, un parassita che ha preso il controllo di un massiccio esoscheletro acquisendo una forza molto superiore a quella degli altri mostri, oppure l’Harvester, nemico esclusivo della modalità multiplayer con il potere di assorbire l’energia vitale dei suoi target. Purtroppo in questo campo il gioco non osa troppo, limitando le novità e preferendo fare leva sulla nostalgia dei fan.
Una delle punte di diamante di DOOM è senza dubbio il suo gameplay: il gioco riesce a mantenere costantemente un ritmo veloce e frenetico, senza sopraffare eccessivamente il giocatore, che riuscirà quasi sempre a sentirsi padrone delle situazioni in cui si andrà a trovare. Il livello di sfida potrà essere aumentato incrementando la difficoltà, ma, grazie all’ottimo design che caratterizza il titolo, il gioco non risulterà mai ingiusto o gratuitamente punitivo.

Un’altra novità sono le uccisioni epiche: quando un nemico sarà abbastanza indebolito (segnalato da un bagliore roso) sarà possibile avvicinarvisi per finirlo a mani nude con una cruenta animazione; i demoni uccisi in tale maniera forniranno sempre medikit, i quali ripristineranno una porzione dei punti salute.
DOOM presenta inoltre una cospicua componente platform: sarà possibile utilizzare il doppio salto, scalare o aggrapparsi a determinate superfici, permettendo spesso di coprire distanze molto estese. Queste sezioni fungono però da intermezzo tra un combattimento e il successivo, senza purtroppo essere integrate con essi, ciò determina alla lunga un senso di noia e monotonia, che va a ledere una parte del gioco che se utilizzata più efficacemente avrebbe potuto migliorarlo di molto.

Oltre al singleplayer, il gioco dispone di una modalità multiplayer, divisa in quattro sottocategorie: Clan arena, Team deathmatch, Dominio e Freeze Tag. Grazie alla funzionalità SnapMap sarà possibile giocare mappe create dagli altri giocatori o creare le proprie, con una serie di strumenti che permettono un alto grado di personalizzazione, con la possibilità di creare nemici unici e nuove regole per le sfide.
La resa grafica è a dir poco spettacolare: la qualità dei modelli, delle texture e dell’illuminazione è senza dubbio superiore a quella di molti giochi usciti nello stesso anno e riesce ancora a rivaleggiare quella di giochi più recenti. Il tutto è accompagnato da uno stile grafico altrettanto efficace, che contribuisce a rendere le ambientazioni suggestive e caotiche e che conferisce ai mostri incontrati un aspetto grottesco e spaventoso, richiamando allo stesso tempo il design classico dei capitoli precedenti.

La colonna sonora, a cura di Mick Gordon, con il suo ritmo adrenalinico e l’uso di Heavy Metal si sposa perfettamente con il frenetico gameplay del gioco. Molti dei temi classici della serie sono presenti sottoforma di remix, per meglio adattarsi all’atmosfera più moderna di DOOM, un esempio è l’ormai iconico tema principale, che accompagna la prima ascesa dello Slayer sulla superficie di Marte.
DOOM riporta la serie alle sue radici senza però aver paura di apportare innovazioni alla formula, in modo da inserirsi efficacemente nel mercato videoludico moderno. Se Doom 3 vi ha lasciato l’amaro in bocca, se siete fan di lunga data o se solo recentemente vi siete approcciati a questa serie, DOOM è il gioco che fa per voi.

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mercoledì 25 marzo 2020

L'abbandono dell'Inferno (Recensione "Doom" del 2005)

Quando uscì "Doom" per la prima volta nel 1993, fece molto scalpore e presto divenne uno dei giochi più importanti del genere sparatutto in prima persona. Dopo otto anni dalla pubblicazione di "Final Doom", arrivò un reboot che avrebbe ridato vita alla serie: "Doom 3", uscito nel 2004; grazie a questo nuovo capitolo, un anno dopo uscì un film ispirato a quest’ultimo e alla serie in generale, per appunto chiamato “Doom”.
La trama del film è la seguente: Otto marines spaziali vengono mandati in missione su una base scientifica che si trova su Marte, nella quale sembra essere successo qualcosa di brutto, tanto da emanare la quarantena dell’intero edificio. Quando i Marines arrivano, si ritrovano a dover aver a che fare con degli esseri mutanti pronti ad attaccarli e ad ucciderli.

Avete letto bene, i protagonisti sono ben otto, anzi nove, con l’aggiunta di una scienzata di nome Samantha Grimm, sorella di John Grimm, un Marine con il quale ha un rapporto difficile.  Quest’ultimi sono personaggi poco interessanti e agiscono in maniera insensata, o meglio, cercano di sembrare dei cosidetti “uomini alpha” mentre hanno gli ormoni a mille in qualsiasi situazione gli si trovi davanti. Un esempio è quando uno di essi, Duke, discute con Samantha di come vorrebbe andare a letto con qualcuna mentre lei è impegnata ad esaminare un corpo di un mutante. L’unica caratterizazione che hanno questi personaggi si può riassumere in un aggettivo che li descrive, tra cui "il fifone", "il leader e il depravato"... mi piacerebbe poter dire che il loro carattere va oltre questi archetipi, davvero. Questo vale per tutti tranne per John, che ha una crescita ed evoluzione nel rapporto con sua sorella Samantha che viene sviluppata fino alla fine.
Proseguendo con la sceneggiatura, non mi ha fatto nè caldo nè freddo. Certe scene mi sono sembrate troppo caotiche, e nessuna sequenza mi è rimasta impressa se non una dalla durata di appena cinque minuti, filmata in prima persona come uno shooter (chiaro riferimento al gameplay della serie), la quale non è priva di pecche essendo che, in certi tratti, risulta forzata. Nonostante questo, è stata una scena molto particolare e sicuramente punto forte del film, e non mi sarebbe dispiaciuto se anche altre parti del film fossero state girate così, soprattutto nelle scene più piatte ad esempio quella dell'esplorazione della base. 

Soltanto gli ultimi 50 minuti sono stati dinamici, poichè, nella prima parte del film, si occupano di ispezionare l’edificio, seguendo una formula ben definita: un gruppo di Marines si trova in un parte dell’edificio, c’è un jumpscare causato molte volte da animali liberi, poi un essere mutante li insegue o lotta contro di loro e alla fine, quando riescono a sfuggirgli o ad ucciderlo, la scena passa ad un altro gruppo, sempre con lo stesso schema che subisce poche variazioni.
Un’altra parte del film è quasi uno slasher, in cui i personaggi vengono uccisi uno ad uno fino a quando non comprendono la reale pericolosità dei mutanti. Nonostante non fosse molto entusiasmante, è stato un passo in avanti rispetto alla prima parte. Il film sembra voler puntare su un finale spettacolare ed epico, mostrandoci un combattimento che, invece di incuriosire e divertire lo spettatore, fa desiderare di skippare la scena, probabilmente anche a causa delle inquadrature che inadatte.

Ci sono molte differenze con la serie videoludica, tra cui il fatto che abbiano tagliato completamente l’esistenza dell’Inferno, luogo da quale provenivano i mostri nei videogiochi. E già, nel film costoro sono stati mutati grazie ad un'invenzione scientifica, che rendeva le persone morte terribili mostri. Una spiegazione che leva parte del fascino del franchise poichè rende i mostri praticamente degli zombie ed è lo stesso movente di un qualunque film basato sui morti viventi.
Se vi state chiedendo com’è andato il film quando è uscito nel 2005, basta dire che su Rotten Tomatoes ha un punteggio del 19%, e che al botteghino ha incassato circa 56 millioni di dollari su un budget di 60-70 millioni. 

Per concludere, "Doom" è un film banale che sembra perdere di vista il suo obiettivo, mettendoci troppi personaggi che potevano essere ridotti e scrivendo una trama che non intriga lo spettatore. Se siete fan di "Doom" probabilmente non vi piacerà, e se non lo siete, magari avete più possibilità di goderlo. In entrambi i casi basta pensare che è un film semplice con cui si può passare il tempo, ed in questa quarantena forse è quello che serviva...

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martedì 24 marzo 2020

La resurrezione del male (Recensione "Doom 3")

Due milioni di vendite. È questa la cifra che la idSoftware si trovò tra le mani dopo l'uscita di Doom II: Hell on Earth nell'ormai lontanissimo 1995. Tuttavia, diversamente da quanto si potrebbe pensare, questo enorme successo non portò la casa di sviluppo a metterne in cantiere un terzo capitolo, preferendo dedicarsi ad un progetto già in mente da tempo, Quake, che diventerà l'altro grande successo della società di Shreveport. 
Dovranno passare ancora cinque anni per ritornare a piazzare sotto i riflettori la saga di Doom, con la volontà di riprendere in mano una concezione videoludica nuovamente incentrata sul single-player a discapito del multi che aveva sancito nella quasi sua totalità globalità il gameplay di Quake III Arena. Nel giugno del 2000, infatti, John Carmack, il creatore del cosìdetto Doom Engine, si dimostrò interessato a realizzare un remake della serie, senza utilizzare il recente motore grafico di Quake, ma realizzandone uno nuovo e rivoluzionario per l'occasione. In seguito ad una leggera diatriba tra i membri della casa di sviluppo, risoltasi dopo aver visto ed apprezzato i risultati della tecnologia di rendering di Return to the castle Wolfenstein, Doom III inizia la sua fase embrionale. Nella primavera del 2002, alla consueta E3 di Los Angeles, il gioco viene presentato al pubblico in un gameplay di 15 minuti della versione beta, riscuotendo un enorme successo, aggiudicandosi ben cinque premi alla conferenza.
Dopo varie vicissitudini, tra cui una “cattiva gestione di tempo e denaro” da parte di Trent Reznor, frontman della band industrial Nine Inch Nails, originariamente sotto contratto per la composizione della colonna sonora, il gioco raggiunge la fine del suo sviluppo il 14 luglio del 2004, raggiungendo gli scaffali del Nord America nel mese successivo, andando incontro ad un enorme successo planetario di pubblico e critica.  Nonostante ciò i “die harder” fan della saga storsero (e continuano a storcere tutt'ora) non poco il naso a causa dell'impostazione meno frenetica dei capitoli precedenti, ma ben più pacata ed incentrata sulla storia, elemento praticamente inedito della saga, inerendo questo capitolo sui binari del survival horror, dove la paura e la tensione offuscano quello che era il totale caos di sangue e proiettili che caratterizzava i primi due episodi. 
Tutto diventa molto più in linea alle esigenze videoludiche dell'epoca (ricordandoci che ci troviamo all'interno di un nuovo boom nell'industria dei videogiochi, indirizzata verso lo scontro a due fra Playstation ed Xbox), puntando su un attenzione quasi fotorealistica del comparto grafico, definito “senza eguali” dalla critica entusiasta, grazie anche al dinamismo delle texture e dell'illuminazione di fondo, rivoluzionaria per i primi anni del nuovo millennio e figlia del nuovo Id Tech 4 creato per l'occasione; basti pensare, infatti, che la quantità di dati di Doom III è ben 130 volte superiore quella di The Ultimate Doom a testimonianza dell'enorme progresso tecnologico raggiunto nel corso degli anni.
Questo capitolo si rivelerà anche di grande successo in ambito “intermediale”. L'anno dopo, infatti, esce nelle sale cinematografice Doom con Dwayne Johnson tra i protagonisti, progetto già avviato dopo il successo di Doom II, realizzatosi definitivamente grazie all'approccio più realistico e, d'altronde cinematografico, dell'episodio tre...

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domenica 22 marzo 2020

L'icona del peccato (Recensione "Doom 2")

Non ci volle più di un anno per far sì che "Doom" ricevesse il suo tanto meritato sequel, un secondo capitolo capace di consolidare la sua eredità videoludica cercando non di superare il suo predecessore, bensì di ampliarlo, completarlo, adottando le stesse meccaniche senza apportarne sostanziali novità, pur andando a donare ai giocatori accaniti ed innamorati del padre degli fps horror un'esperienza completamente nuova che potesse andare a colmare il vuoto che l'epilogo del primo capitolo aveva creato. Un arduo lavoro in cui, dire che "Doom 2" ha eccelso, è un eufemismo.
Se da un lato, quindi, vediamo come il gioco mantenga stesso gameplay, grafica ed engine, id Software, ed in particolare i level designers Sandy Petersen e American McGee, hanno approfittato delle potenzialità che offrivano i nuovi modelli di computer nel mercato che permettavano al team di sbizzarrirsi di più senza dover andare ad aggiornare l'engine. I livelli, grazie al maggior spazio disponibile ed alla maggior fluidità dei livelli disponibili, quindi, divengono ancora più intricati, cervellotici e labirintici, rendendo il muoversi tra i corridoi pieni di nemici un'esperienza ancora più complessa e, allo stesso tempo, donando alla visione della porta di fine livello un significato decisamente maggiore. Anche i caricamenti vennero resi più felici, con il gioco che, de facto, si prolunga in una sola grossa mappa segmentata in diverse location, abbiandonando la grafica della mappa del primo capitolo permettendo, però, di non perdere il primo inventario ad inizio di ogni nuovo livello.
Queste possibilità di una memoria maggiore, ovviamente, influirono anche sulla scelta dei nemici: i boss del primo gioco vennero ridotti a semplici nemici (o miniboss) mentre, affianco ai soliti Imp o Pinky, vennero aggiunti nuovi mostri: i Chaingunner (zombie pesantemente armati), gli Hellknight (una versione più debole dei Baron of Hell), i Revenant (scheletri con lanciafiamme montati sulle spalle), gli Arachnotron (ragni cybernetici), i Mancunbus (enormi demoni umanoidi con innesti tecnologici), i Pain Elemental (simili ai Cocodemon) e gli Arch-Vile (esseri umanoidi con stigmate capaci di generare fiamme), oltre al maestoso boss finale del gioco, iconico quasi quanto il gioco stesso, L'Oscuro, Il Custode, L'Icona del Peccato: John Romero. In un geniale easter egg, non il solo di questo titolo per giunta, infatti, l'hitbox nascosta del boss finale assume le sembianze della testa decapitata, impalata e sanguinante del cofondatore della software house di "Doom", nonché suo designer.
La trama, per quanto possa contare in un titolo come "Doom 2", vede il Doom Guy (o Doom Slayer) sopravvissuto agli eventi del primo capitolo riuscire a fermare l'attacco dei demoni ed ad uscire dall'Inferno. Prima di poter cantare vittoria, però, apprende che un portale per l'Inferno si è aperto e che l'umanità è stata dimezzata. I sopravvissuti tentano, quindi, un folle piano d'emergenza che consiste nel mandare i sopravvissuti nello spazio per iniziare da zero, ma, i demoni, hanno assediato la facility che permetterebbe l'operazione. Pronto a tutto, il Doom Slayer, torna a far strage di demoni e abomini vari per salvare l'umanità intera, tra la Terra e la dimensione infernale.
Se la trama non fu uno dei motivi che spinsero i videogiocatori dell'epoca ad acquistare il titolo, lo fu la possibilita di poter giocare in multiplayer, locale e non, sia in co-op che in scontri deathmatch, una funzione che venne aggiunta postuma anche al primo "Doom" visto il successo e che allargò ulterioremente le porte al modding che, ora, poteva pensare di creare nuove esperienze e mappe intesi per il multiplayer. Se, al giorno d'oggi, sembra un elemento abbastanza scontato in un fps, va però ricordato che questo fu il primo titolo nella storia del genere ad aggiungerlo, avviando il filone che ha portato ai moderni "Call of Duty" o "Battlefield" e riconfermando la saga di "Doom" come un tassello fondamentale nella storia videoludica.
Tornando al discorso degli easter eggs, tralasciando la presenza delle SS di "Wolfenstein" e di Commander Keen nel gioco, in omaggio ad altri due titoli della id Software, ed il macabro fucile a canne mozze posto all'inizio del livello "Nirvana" per ricordare il suicidio del frontman dell'omonima band, Kurt Cobain, sparatosi proprio con lo stesso modello di fucile in bocca lo stesso anno, ben 24 anni dopo l'uscita del titolo, uno speedrunner conosciuto col nickname di Zero Master, ha scoperto l'ultimo segreto del gioco: nella mappa della zona industriale un livello è contrassegnato come individuabile, ma questo non pare il caso. L'idea geniale del giocatore è stata, quindi, quella di non cercare di recarsi direttamente nel luogo indicato, bensì, di farcisi spingere da un nemico, in particolare da un Pain Elemental. Una trovata geniale che gli ha garantito non solo di essere il primo giocatore al mondo capace di aggiudicarsi il completamento al 100% del livello e del gioco senza mezzi esterni (hack), ma anche i complimenti via Twitter di John Romero in persona.
Il successo del titolo, oltre che, quindi, durare fino ai giorni d'oggi, fu il più grande successo commerciale dell'id Software, nonchè primo titolo venduto in copia fisica dei negozi dell'azienda, con oltre 2 milioni di copie vendute e una critica uniformemente positiva. Nel 1995, addirittura, il gioco si aggiudicò l'Origins Award come miglior gioco di tipo fantasy o science fiction del 1994. Tenendo a mente ciò, ovviamente, un'espansione non sarebbe potuta mancare.

Mentre la software house lavorava al loro prossimo successo, fondamentale nello sviluppo di "Half-Life", "Quake", Shawn Green decise di creare una compilation di livelli ufficiali, sulla falsariga di quelle che riscuotevano tanto successo sul web e sulla piattaforma DiZone, assoldando alcuni dei migliori level design presenti nella scena dell'epoca: John W. Anderson e Tilli Willits (reduci di "The Ultimate Doom", espansione del primo titolo), Jim Flynn, Tom Mustaine, David Kilie, Sverre Andre Kvernmo e Cristen David Klie. I sette progettarono 21 livelli aggiunti per il titolo, distribuiti assieme a 1830 mappe amatoriali diffuse nel web ad attentamente selezionate.
"Doom 2" fu, insomma, un colosso, capace di ergersi al fianco del suo capostipite con fierezza, gettando ulteriori basi a quello che era il nascente genere degli fps in prima persona e del panorama di giochi horror in generale.

Ma, un secondo seguito, avrebbe potuto regger testa a tale eredità? Scopritelo nel prossimo articolo... 

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