Una delle capacità più straordinarie dell’arte è quella di riuscire, talvolta, a mettere a disagio l’interlocutore. Non è una disciplina meramente accademica, costituita esclusivamente da studi anatomici e accostamenti cromatici particolari. L’arte è violenza allo stato puro. A volte è proprio da questo particolare senso di disagio che scaturisce una riflessione, un’introspezione, per quanto soggettivo possa essere l’impatto della scena pittorica con l’interlocutore. È quasi terapeutico. Dopo uno sgomento iniziale, dopo una riflessione che segue, quasi sempre la tappa successiva è l’empatizzazione, il riconoscersi, in qualche modo, nei personaggi nel quadro, nei dettagli, nelle ombre. L’arte, in quanto principale prodotto dell’attività umana, porta con se la matrice pura degli esseri umani, che, per quanto cambino tempi e modi, resta sempre la stessa.
È per questo, probabilmente, che alcune delle opere maggiori di Artemisia Gentileschi siano ancora oggi terribilmente attuali. Basti pensare al celebre quadro "Giuditta che decapita Oloferne". L’artista ha realizzato due versioni della stessa scena, entrambe con la tecnica dell’olio su tela: la prima (158,8x125,5 cm) è attualmente conservata al Museo di Capodimonte di Napoli, e fu realizzata nel 1612. La seconda versione (199x162,5 cm), attualmente conservata al Museo degli Uffizi di Firenze, fu realizzata nel 1620.
Per comprendere a fondo la carica espressiva di queste opere è necessario fare riferimento ad alcuni eventi biografici di Artemisia Gentileschi. Nel 1611, infatti, l’artista subì una violenza sessuale da parte di Agostino Tassi, pittore e collaboratore del padre. Fu denunciato, fu processato, ma, per ovvi motivi oltre che per la turbolenza del processo, la violenza influenzò irrimediabilmente Artemisia. Alcuni studiosi, infatti, sono riusciti ad identificare alcuni riferimenti alla violenza da lei subita in alcuni quadri, in particolare, appunto, nella freddezza e nella violenza della scena rappresentata.
Il soggetto del quadro, infatti, fa riferimento ad un episodio biblico: la liberazione di Israele, per mano di Giuditta, dall’assedio di Nabucodonosor. La donna fa credere al generale dell’esercito, Oloferne, di volersi alleare con lui. Quest’ultimo, affascinato e sedotto dalla sua bellezza, la invita nella sua tenda per un banchetto. Dopo essersi ubriacato ed addormentato Giuditta riesce a sottrargli la scimitarra, e lo decapita, assistita da un’ancella.
I colori degli abiti di Giuditta e dell’ancella, accesi e in contrasto con la loro pelle pallida, mettono in risalto le loro figure, in contrapposizione al busto nudo di Oloferne. La luce sembra provenire da sinistra, ma è fioca, come se derivasse da una candela. La scarsa illuminazione della scena permette ai tre soggetti di essere i protagonisti assoluti dell’opera, eliminando a prescindere i dettagli superflui.
Giuditta ha uno sguardo quasi vuoto, freddo, potrebbe quasi risultare incuriosita dal sangue che sgorga dalla gola di Oloferne. È questa violenza e questa crudeltà che, immediatamente, riportano col pensiero alla violenza da lei subita.
Al di la di piccole differenze, come ad esempio i colori degli abiti di Giuditta, la versione napoletana e quella fiorentina sono pressoché uguali anche nella meccanica dei movimenti dei soggetti.
Articolo di Manuela Griffo
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