Quando Dio scrisse la prima bozza del codice genetico umano, pensò fosse divertente aggiungere, tra il talento e le virtù, una certa inclinazione naturale verso il denaro, nonché un impulso irrefrenabile, primordiale e violento verso il potere. Non si sarebbe mai aspettato che sarebbe stato proprio questo apostrofo ad essere quello dominante. Sarebbe bastato e avanzato un ben ponderato istinto alla conservazione.
Probabilmente, nel constatare la tragicità del decorso della storia umana, si sarà anche pentito di aver macchiato così brutalmente le sue perfette macchine biologiche, portandole a distruggersi l’una con l’altra. Perché, in fondo, la conseguenza diretta di tale aspetto della natura umana, non ha bisogno di introduzioni. Tutti l’abbiamo temuta, vista o, nel peggiore dei casi, vissuta. La guerra è, purtroppo, parte integrante della storia del mondo.
Correva l’anno 1940 quando Salvador Dalì provò ad immaginarsi a cosa sarebbe somigliata un’ipotetica personificazione della guerra, realizzando un dipinto che porta il nome di Le visage de la guerre (El Rostro de la Guerra), attualmente conservato al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam.
L’opera si colloca nel periodo storico che va dalla fine della guerra civile spagnola all’inizio della seconda guerra mondiale, quando l’artista decise di rifugiarsi negli Stati Uniti con la sua amante per sfuggire agli orrori del conflitto, e per poter continuare la propria produzione artistica indisturbato. Nonostante le sue modeste dimensioni (64 cm x 79 cm), il dipinto riesce ad incutere una sensazione di sgomento piuttosto circoscritta, scaturita dal saggio accostarsi di celebri riferimenti iconografici e di colori dalla qualità tonale che, inconfondibilmente, puntano a generare un senso di disagio nell’osservatore.
Il protagonista del quadro è un volto scarnito, incavato, che sembra quasi essere stato consumato da un tempo che scorre al contrario, posizionato al centro della scena pittorica, assumendo una costruzione simmetrica. I muscoli corrugano la pelle scura del viso in un’espressione di dolore, di disperazione, di panico. Accanto all’estremo realismo della fisionomia del viso, si accompagna una parallela narrazione surrealista, che rende quel realismo un tramite per esasperare l’angoscia e il dolore, veri protagonisti del quadro.
Nelle cavità oculari e in quella orale sono presenti dei teschi, nei quali, a loro volta, sono inseriti altri teschi e così via. L’immagine è altamente simbolica, e rappresenta la spirale di morte e distruzione perpetua che si accompagna alla guerra, e che non ha mai fine.
L’inquadratura orizzontale del quadro ci permette di osservare l’ampio e profondo paesaggio, desolato e vuoto, praticamente annichilito. I colori dello sfondo solo volutamente polverosi, malinconici, quasi pallidi, in modo da far risaltare il viso all’interno dell’opera.
La luce è naturale, proveniente dalla destra, e crea un delicato chiaroscuro che modella il viso.
Non si tratta di un’opera di denuncia. L’intento di Dalì non era quello di prendere una posizione politica, o di professare la pace. È, piuttosto, la manifestazione più genuina delle sue paure più profonde, legate alla guerra dalla quale stava scappando.
Articolo di Manuela Griffo
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