Uno dei capisaldi della cultura occidentale è la celebrazione del Natale, una festività dalla genesi cristiana ma che col tempo si è arricchita di simbologie pagane. Oltre alla sua ovvia valenza religiosa, il Natale diventa il pretesto perfetto per decantare quello che la maggior parte delle persone considera un dono, ossia l’atto della nascita, considerata come «autoaffermazione libera da parte di ogni uomo che viene al mondo» (Hannah Arendt). In numerosi dibattiti di stampo bioetico, come ad esempio quelli che concernono l’eutanasia e l’aborto, viene sottolineata l’imprescindibile importanza della vita, la sacralità della nascita. Non esiste, ovviamente, una posizione unanime e definitiva rispetto alla faccenda. Dal punto di vista di molti, infatti, nascere rappresenta l’atto con il quale la coscienza viene brutalmente strappata dal cosiddetto vuoto cosmico, e viene calata nel contesto del mondo sensibile, costituito da una miriade di influenze (negative, soprattutto). È la coscienza stessa, infatti, a sodomizzare l’esistenza umana. Dostoevskij nel suo capolavoro “Memorie dal sottosuolo” la definisce come una vera e propria malattia, che tende ad ipertrofizzarsi nei soggetti più sensibili, cogliendo dunque sempre più sfumature di una realtà avversa e crudele e suscitando un senso di sgomento.
Versione del 1895 |
Unae delle rappresentazioni più alte di tale senso di sgomento va a concretizzarsi nel dipinto di Edvard Munch, L’urlo (titolo originale in norvegese: Skirk). L’artista ha realizzato, tra il 1893 e il 1910, una serie di quattro versioni della stessa scena. La prima versione era una semplice bozza realizzata con pastello su cartone. La seconda versione, la più celebre delle quattro, è attualmente conservata nella galleria nazionale di Oslo. La terza, realizzata nel 1895, è più piccola della seconda versione, ed è realizzata con pastello su tavola. La quarta versione, invece, è stata realizzata nel 1910, ed è una tempera su pannello.
La scena rappresentata nell’opera prende spunto da un evento autobiografico, descritto dallo stesso Munch in uno dei suoi diari: «Una sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania - con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole calava - si era immerso fiammeggiando sotto l'orizzonte. Sembrava una spada infuocata di sangue che tagliasse la volta celeste. Il cielo era di sangue - sezionato in strisce di fuoco - le pareti rocciose infondevano un blu profondo al fiordo - scolorandolo in azzurro freddo, giallo e rosso - Esplodeva il rosso sanguinante - lungo il sentiero e il corrimano - mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente - ho avvertito un grande urlo ho udito, realmente, un grande urlo - i colori della natura - mandavano in pezzi le sue linee - le linee e i colori risuonavano vibrando - queste oscillazioni della vita non solo costringevano i miei occhi a oscillare ma imprimevano altrettante oscillazioni alle orecchie - perché io realmente ho udito quell'urlo - e poi ho dipinto il quadro L'urlo.»
Particolare da "Autorittatto con sigaretta" (Edvard Munch, 1895) |
Nella versione del 1895, poi, Munch rielabora questo suo angoscioso ricordo, annotandolo sulla cornice del quadro: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Si tratta di un’opera aperta a numerose interpretazioni, come in fondo ci si dovrebbe aspettare da un’artista di spicco dell’espressionismo nordico.
Il punto di fuga esterno al quadro suggerisce un senso di indefinito, che inevitabilmente provoca un senso di angoscia, di terrore. Può essere, quindi, considerato quasi come un espediente artistico: la nebulosità della porzione sinistra dell’opera punta esattamente ad angosciare l’osservatore. Si tratta, comunque, di una poetica dell’indefinito ben diversa da quella teorizzata da Giacomo Leopardi nello Zibaldone, che sosteneva che l’unica cosa in grado di stimolare il piacere dell’uomo è l’immaginazione, stimolata a sua volta dal senso del vago ed indefinito.
Versione del 1893 |
Il baricentro del quadro è costituito dalla bocca, spalancata in un urlo muto, disperato, angoscioso, che esprime tutto il dolore con la sua potenza espressiva deforma la natura che circonda il soggetto, nonché il soggetto spesso. La natura non è benevola, è matrigna, come testimonia la sensazione di disarmonia e squilibrio nelle forme del quadro. Il profondo simbolismo dell’opera, tuttavia, non risiede solo ed esclusivamente nelle forme, ma anche nel ricercato cromatismo, ottenuto tramite l’associazione di colori complementari (azzurro-arancione, rosso-verde).
L’opera è stata vittima di due celebri furti. Il primo, avvenuto il 12 Febbraio 1994, vide protagonisti due uomini che si introdussero nel museo nello stesso giorno dell’inaugurazione dei XVII Giochi olimpici invernali, e riuscirono a rubare l’opera in soli 50 secondi, lasciando un biglietto con su scritto “grazie per le scarse misure di sicurezza”. L’opera venne ritrovata tre mesi dopo in un albergo. Il secondo furto avvenne il 22 Agosto 2004, quando oltre L’urlo venne sottratta anche un’altra importante tela dell’autore, La madonna. Entrambe furono ritrovate due anni dopo.
Complessivamente l’opera trasmette, dunque, un senso viscerale di angoscia, di panico, la realtà diventa una vera e propria prigione. Ma in un mondo del genere, inconoscibile, terrificante, di fronte ad una realtà così cruda e maligna, c’è chi sostiene che sarebbe stato meglio non essere mai nati. Questo filone filosofico prende il nome di antinatalismo, ed uno dei suoi esponenti maggiori è senza dubbio Giacomo Leopardi. In un celebre passo dello Zibaldone noto col nome di Giardino della sofferenza, l’autore descrive, appunto, un giardino ridente, nella stagione più mite dell’anno. Dovunque si butti lo sguardo, tuttavia, è inevitabile trovare del patimento, e dopo una lunga descrizione degli elementi costitutivi del giardino, conclude dicendo che certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere. Allo stesso modo, Cioran, che si definiva fratello di Leopardi per questa affinità di idee, sostiene nel suo libro “L’inconveniente di esser nati” che, se è vero che con la morte si ridiventa quello che si era prima di essere, allora sarebbe stato meglio limitarsi alla pura possibilità senza uscirne, restando in una pienezza irrealizzata.
Prima versione del 1910 |
Nel contesto della filosofia moderna, che ha preso una piega analoga (come ad esempio con la filosofia dell’orrore di Eugene Thacker e David Peak), spicca il nome di David Benatar, che con la sua tesi antinatalista ha provocato reazioni piuttosto dissonanti tra loro fra i suoi lettori. Il filosofo sostiene, infatti, che mettere al mondo un altro essere umano è un atto puramente egoistico, e che la genitorialità non sia altro che un mezzo per soddisfare il bisogno egocentrico di sentirsi necessari per qualcuno.
La sua tesi si basa su un’osservazione specifica: nascendo ci si espone al bene, che è neutro dato che senza una coscienza, quindi non esistendo, non si ha percezione di cosa sia e non è quindi necessario, ma ci si espone anche al male, che è negativo. Non nascendo, invece, non ci si espone al bene, che è neutro, ma non ci si espone neanche al male, che è positivo. In conclusione, la drastica soluzione sarebbe quella di percorrere una superstrada verso l’estinzione di massa, non procreando più.
Seconda versione del 1910 |
Le controversie intorno a questi assunti sono tante e variegate, molto spesso legate all’etica e al cristianesimo, ma la verità è che non esiste una riposta corretta a questi quesiti tanto complessi quanto ampi.
Articolo di Manuela Griffo
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