Dopo aver scritto due articoli ("Il signore del male” di Carpenter e poi di “Django il Bastardo” di Sergio Garrone) un po' lontani dalle mie solite analisi sul cinema horror italiana che ormai avete imparato a conoscere e ad assimilare, ho deciso di ricimentarmi nuovamente su questo filone, decidendo di parlare di un vero Capolavoro del genere, un cult conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, diretto da un maestro inarrivabile come Mario Bava, qui (sembra incredibile a dirlo, visto il risultato) al suo primo lungometraggio.
Ispirandosi ad un racconto dello scrittore russo Nikolaj Gogol' dal titolo “Il Vij”, Bava, insieme a Ennio de Concini e a Mario Serandrei, scrive la sceneggiatura, rifacendosi anche al grande successo dei classici horror degli anni '50 taragti Hammer, in particolare al “Dracula” di Terence Fisher e con Christopher Lee nel ruolo del famigerato Conte. Nasce così “La maschera del demonio”, una pellicola che senza alcun dubbio finirà per cambiare irrimediabilmente i connotati classici che l'horror aveva mantenuto così assiduamente fino a quel momento.
In una fredda notte del XVII secolo, una donna di nobile famiglia viene condannata al rogo dalla santa inquisizione con l'accusa di stregoneria, conficcandole sul volto una mostruosa maschera di ferro. Duecento anni dopo, due studiosi in viaggio di lavoro si imbattono nella cripta dove la donna venne seppellita due secoli prima, ridando vita ad una maledizione che sembrava ormai svanita per sempre.
Già dall'ambientazione, Bava decide di riprendere i caratteri del folkrore est-europeo (essendo il film abientato nella moldavia del 1800), con i suoi sinistri castelli imponenti, i fitti e lugubri boschi che vanno a cozzare con l'atmosfera delle accoglienti locande, con la loro musica allegra ed i fiumi di vodka che invadono le tavole. Sono molte le scene in cui il regista romano decide di sfruttare questi elementi, dando risalto in particolar modo alla vegetazione, sempre molto invasiva, sempre utilizzata come soffocante cornice naturale dell'inquadratura, rendendola quasi dodata di una propria coscienza, come afferma il cocchiere della carrozza nelle prime scene del film. Una sensazione, questa, che viene trasmessa allo spettatore anche grazie alla meravigliosa fotgrafia di un bianco e nero armonioso e mai piatto, dove l'illuminazione gioca un ruolo fondammentale, curata in un modo quasi maniacale sui volti dei protagonisti.
Ciò che caratterizza questa pellicola dalle precedenti opere horror è, senza dubbio, l'azzardata scelta di fare paura con l'Orrore nelle sue vesti più (im)pure, senza derivatismi misteriosi e fantastici. Il film ,infatti, è spaventosamente macabro, e preme, senza inutile timidezza, sull'accelleratore nelle scene di violenza più crude, come il meraviglioso incipit, con la maschera che viene piantata con violenza sul volto della malcapitata, dai cui occhi vediamo scendere le sue straziate lacrime. Rivoluzionari, in un certo senso, sono gli effetti speciali pratici, in special modo dove vediamo il corpo della strega perdere le sue rughe e ritornare giovane come un tempo, riacquisendo la sua bellezza.
Tutti elementi sinistri che rendono “La Maschera del Demonio” del 1960 uno degli horror (e dei film) migliori del nostro cinema, che ha resisito in maniera netta e incredibile allo scorrere del tempo, facendo scuola e venendo ancora oggi omaggiato, forse più di ogni altra opera, dalle nuove generazioni di cineasti del macabro.
Articolo di Andrea Gentili
1 commento:
sull'accelleratore nelle scene?
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