ATTENZIONE: Questo
articolo è il sesto della serie ed il secondo del capitolo dedicato alla
libidinosa rianimazione di Carl Hill, consigliamo la lettura dei
precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.
Partiamo
da Stuart Gordon. Ulteriore motivo per suffragare la nostra tesi riguardo a Re-animator
quale genuina, oltre che riuscita, messa in scena del grandguignolesco è
proprio il fatto che il regista, ai tempi della realizzazione del film, da anni
fosse uno dei fondatori ed organizzatori dell'Organic Theatre di Chicago, «un
collettivo di scrittori, attori e artisti vari che lavoravano insieme in modo continuo
per creare materiale originale», di cui facevano parte anche i due
sceneggiatori William Norris e Dennis Paoli, quest'ultimo professore laureato
in Letteratura Gotica alla Columbia University (dunque, contrariamente a come
sembrano pensarla i puristi di Lovecraft, siamo portati a figurarci una
conoscenza adeguata della materia d'origine da parte degli autori), oltre che
sceneggiatore di tutti i film di Gordon derivati da un'opera letteraria. Non
stupisce che Gordon e altri dell'Organic Theatre vennero perfino arrestati per
oscenità, nell'eloquente data del 1968, per una versione hippie,
psichedelica e anti-istituzionale del Peter Pan che avevano messo in
scena (P. Zelati, American Nightmares. Conversazioni con i maestri del NewHorror americano, cit., p. 509).
Insomma, il regista l'irriverenza ed il teatro li ha nel sangue, e non può essere un caso che la sequenza dell'obitorio faccia un così intelligente uso di luci stroboscopiche e macchine per il fumo. Il tutto coscientemente applicato da Gordon ad un nuovo medium che, attraverso il montaggio, gli permette di travalicare (nei limiti del possibile) ogni ostacolo spaziale, imposto invece dal teatro: in un'inquadratura, quando West viene stritolato dagli intestini di Hill e Cain prova (nonostante tutto) a salvarlo, il dettaglio delle mani dei due che invano si sforzano di afferrarsi l'un l'altra su uno sfondo indefinito di nebbia prepara credere, nelle inquadrature successive, che West non stia più semplicemente sparendo in un angolo della stanza lì accanto coperto dal fumo, ma che venga inesorabilmente trascinato per una distanza incalcolabile in un vasto e freddo limbo senza ritorno (come si può ben immaginare dell'esistenza di ben due sequel, anche Herbert West come molti villains del cinema horror degli anni '80 ha la pessima abitudine di ignorare il fatto di essere morto).
Capitolo Terzo, Paragrafo Secondo
Esperimento riuscito
Insomma, il regista l'irriverenza ed il teatro li ha nel sangue, e non può essere un caso che la sequenza dell'obitorio faccia un così intelligente uso di luci stroboscopiche e macchine per il fumo. Il tutto coscientemente applicato da Gordon ad un nuovo medium che, attraverso il montaggio, gli permette di travalicare (nei limiti del possibile) ogni ostacolo spaziale, imposto invece dal teatro: in un'inquadratura, quando West viene stritolato dagli intestini di Hill e Cain prova (nonostante tutto) a salvarlo, il dettaglio delle mani dei due che invano si sforzano di afferrarsi l'un l'altra su uno sfondo indefinito di nebbia prepara credere, nelle inquadrature successive, che West non stia più semplicemente sparendo in un angolo della stanza lì accanto coperto dal fumo, ma che venga inesorabilmente trascinato per una distanza incalcolabile in un vasto e freddo limbo senza ritorno (come si può ben immaginare dell'esistenza di ben due sequel, anche Herbert West come molti villains del cinema horror degli anni '80 ha la pessima abitudine di ignorare il fatto di essere morto).
Altra
scena fortemente influenzata dalla messa in scena teatrale, afferma lo stesso
Gordon, è il lungo one shot successivo alla rianimazione del preside
Halsey, dove in campo medio i personaggi di West, Cain, Megan e del custode
dell'obitorio interagiscono, con grandissima naturalezza, fra loro, con il
cadavere inerte del primo rianimato e con il preside-zombi, senza che la
macchina da presa interferisca con qualcosa di più di qualche rapido movimento
di assestamento, e tuttavia non mancando di catturare ognuna delle diversissime
emozioni presenti in scena che contribuiscono a tenere salda la logica di una
frammentaria rappresentazione dell'assurdo che difficilmente viene restituita
in una così complessa verosomiglianza: esse spaziano, infatti, dallo shock
contenuto a stento di Cain, che si oppone alla disperazione furiosa e isterica
di Megan, alla prontezza sicura e calcolata di West, che asseconda
l'incuriosito fastidio del custode per essere stato importunamente strappato
alla propria coffee break. Gli attori stessi provenivano per la maggior
parte da ambienti teatrali, su specifiche direttive riguardo al casting
volute dal regista.
E
tuttavia, benché questo fosse proprio il suo esordio cinematografico, Gordon
non si dimostra a digiuno di basilari ma efficaci tecniche di ripresa,
sicuramente grazie ai consigli del già navigato direttore della fotografia
Ahlberg e, non è da escludere, anche in conseguenza dell'instancabile e
ripetuta visione in fase di pre-produzione, e insieme all'inseparabile
produttore Brian Yuzna, di tutti i più famosi film dell'orrore dei cinque anni
precedenti, e del capolavoro di Roman Polanski Rosemary's Baby (Id;
1968) in particolare: si pensi a come la macchina da presa sia spesso
“posizionata alle spalle di Bruce” («pearching on Bruce shoulders» dice
Gordon nel commento audio alla pellicola presente nel bluray della Second
Sight) Abbott, il cui personaggio, con la sua “quotidianità” in un mondo di weirdos
e mad doctors, è l'unico in grado di porsi come filtro dominante tra il point
of view dello spettatore e la pellicola (si ricordi pure che era l'io-narrante della storia originale),
generando pure quella suspense kubrickiana dovuta al seguire con la
macchina da presa l'ingresso del personaggio in un luogo sconosciuto e ostile
(lo stesso accade per Megan con la camera di West) alle spalle piuttosto che di
fronte; o si pensi anche al trucco, molto più cinematografico che teatrale, con
cui il professor Hill, ripreso leggermente dal basso rispetto ai suoi
interlocutori in modo da enfatizzarne l'altezza, torreggi su ogni altro
personaggio come un perfetto villain gotico, che gli autori vollero una
volta scartata l'ipotesi di un personaggio dall'aspetto più “prosaico” e
naturale. Per non parlare di come l'«infatuazione per i dolly»
confessata dal regista riesca ad imporsi anche in un film così spazialmente
chiuso e circoscritto, e dove la macchina da presa in mano ad un autore meno
sagace correrebbe il rischio di rimanerne soffocata: caso esemplare è il
suggestivo pull back shot che allontana velocemente, per tutta la
lunghezza di un asettico e freddo corridoio, la macchina da presa da Megan
Halsey, mentre la ragazza, diretta all'obitorio, inconsapevolmente si appresta
a conoscere il destino toccato al padre; o anche l'inquietante dolly nel
laboratorio-scantinato che segue verso il basso i movimenti furtivi di Herbert
West, portatosi alle spalle dal professor Hill, e che lentamente va a svelare
il manico e la lama della vanga che gli sta accanto, poggiata alla parete.
Come
chi già non sa avrà ormai intuito, lo stesso produttore della pellicola, Brian
Yuzna, ha avuto un ruolo più che meramente economico nella lavorazione del
film, e non a caso annovera nella sua carriera da regista veri e propri
capolavori e cult del cinema horror come Society – The Horror
(1989; Id), Il ritorno dei morti viventi 3 (1992; Return of
the Living Dead III) e The Dentist (1996; Id). Dopo aver
convinto Stuart Gordon a realizzare un film, prendendo elementi da un po' tutta
la storia di Lovecraft, piuttosto che una serie televisiva a puntate, come del
resto era stato realizzato e pubblicato il racconto (tanto che ogni capitolo
era introdotto da una sorta di previously), ha partecipato attivamente
alla sua scrittura e, sebbene non si faccia problemi ad ammettere che doveva
«metterci abbastanza sesso e sangue da renderlo appetibile per il pubblico»,
egli ha idee molto chiare in proposito, tali da poter trasformare, in tutti i
suoi lavori, una necessità produttiva in una cifra stilistica. «La vita
comincia con il sesso e finisce con la morte […]. Per cui non si può parlare
della morte senza toccare il tema della sessualità o il contrario» sono le sue
esatte parole (Zelati, p. 497) e “il buon viso a cattivo gioco” che Yuzna ha
sempre fatto nelle vesti di un produttore interessato più all'arte, pure se
incentrata sull'eros, piuttosto che agli incassi lo prova il fatto che Society
venga ad oggi considerato uno degli horror più anticapitalisti della
storia del cinema insieme ad Essi vivono (1989; They Live) di
John Carpenter.
Per
quanto riguarda il black humor, Stuart Gordon venne ispirato da una
sortita fatta prima dell'inizio delle riprese in un obitorio di Los Angeles
dove condusse anche gli attori, venendo a conoscenza dello spiccato umorismo
macabro degli impiegati del luogo. Il regista racconta come
«era
molto importante per me mostrare, attraverso il personaggio di Jeffrey Combs,
che i dottori, quando sei vivo, fanno il possibile per salvarti, ma, appena
muori, diventi spazzatura. C'è una sequenza nella quale il Dr West cerca di
rianimare un cadavere [il primo], e quando [inizialmente] non ci riesce
comincia a prenderlo a pugni, come se si trattasse di un pezzo di merda. Lo
trovo agghiacciante!» (p. 511)
Siamo
ben lontani da un mero “sollazzo ludico”, o comunque dalla puerile comicità
tanto invisa ai puristi di Lovecraft. Tanto più che Gordon sa perfettamente
come far sì che «una risata nervosa nasca dal disagio psicologico»,
contrariamente a quella catartica delle commedie “pure”, che semplicemente
partono dalla “forma” del genere (e quindi lo parodiano), seppur brillantemente,
da Gianni e Pinotto contro Frankenstein (1948; Abbott and Costello
Meet Frankenstein) fino a L'alba dei morti dementi (2003; Shaun
of the Dead); o quella delle stomachevoli slapstick di Sam Raimi e
Peter Jackson, che distaccano lo spettatore dalle epopee splatter di
Bruce Campbell e Timothy Balme: in tutti questi esempi è abilmente compreso, ma
pure applicato pedissequamente, il basilare assioma per cui «dobbiamo
empatizzare con le vittime dell'horror mentre la commedia richiede una
certa distanza emotiva che ci permetta di ridere della sfortuna e dei
capitomboli dei protagonisti indifesi». Invece, Gordon sovverte anche questi
dettami fondamentali, e fonde perfettamente e coscientemente terrore e
comicità: quando afferma (in modo assolutamente identico a un affermato maestro
come Brian De Palma) che «il pubblico cerca sempre una scusa per ridere durante
i film dell'orrore, dunque bisogna dargliene per evitare che ridano al momento
sbagliato» (R. Worland, The Horror Film: An Introduction, cit., pp.
243-246), troviamo estremamente difficile anche solo immaginare un argomento
con cui poter ribattere.
Allo
stesso modo, pure lo splatter e la violenza esplicita sono riconducibili
ad un intento, oltre che provocatorio e sovversivo, perfettamente conscio del panorama
cinematografico in cui il film avrebbe dovuto imporsi, eppure sempre teso a
piegare una logica commerciale a delle specifiche mire artistiche e autoriali:
è proprio Dennis Paoli, principale artefice della sceneggiatura (che i vari
autori, distanti geograficamente, modificavano via telefono e via fax),
a confermarlo aggiungendo altre interessanti chiavi di lettura:
«Basta
pensare, per esempio, all'opera di Cronenberg e a quello che Guillermo del Toro
ha definito il “tradimento del corpo”. E anche Re-animator rientra
perfettamente in questa tematica in quanto, normalmente, il corpo invecchia e
muore, nel nostro film, invece, le regole vengono sovvertite con conseguenze
nefaste. E se vogliamo allargare il discorso, uscendo dal New Horror americano,
io credo che ogni film, di ogni epoca, abbia a che fare con questa tematica:
Dracula, Frankenstein, The Wolf Man (L'uomo lupo) ecc. sono tutti film in cui
la trasformazione del corpo ha a che fare, in qualche modo, con la sessualità.
La Fiction Gotica in generale, secondo me, ruota intorno al problema
dell'identità: se noi, infatti, siamo abituati ad indentificarci in base alla
nostra mentalità ed alla nostra apparenza fisica, quando il corpo cambia ecco
che arriva la crisi di identità. Quando io insegno Frankenstein ai miei
studenti, risulta subito molto evidente che il vero mostro è Victor. La
sessualità disturbata, altro non è che l'identità disturbata. Inoltre,
nell'horror in generale, se lo si analizza strutturalmente, emergono due grandi
paure generali: la castrazione per i maschi e lo stupro per le femmine. E
questo perché attraverso il simbolo della sessualità, ti viene rubata
l'identità» (Zelati, p. 259-230).
Ed
è tenendo bene a mente queste ultime parole che possiamo dirci finalmente
pronti ad affrontare quella che senza dubbio alcuno si classifica come la scena
più riconoscibile e insostenibile di Re-animator, nata con una
telefonata ricevuta da Stuart Gordon, e all'altro capo dell'apparecchio Dennis
Paoli non riusciva a smettere ridere mentre cercava di dire: «Credo di aver
scritto il vero pugno nello stomaco del film visivamente parlando» (Ibidem).
Spiegò come in «un malato gioco di parole visivo» (Worland, p. 250) la testa
del professor Hill avrebbe praticato del sesso orale (head “giving head”)
alla povera Megan, legata al tavolo dell'obitorio. La risposta di Gordon: «Ok,
la dobbiamo assolutamente girare».
Sebbene
la violenza in sé si risolva solamente in un “tentativo” che, quando ormai il
corpo decapitato di Hill sta reggendo la propria testa tra le cosce della
ragazza, viene sgarbatamente e tempestivamente interrotto da Herbert West («Ha
rubato il segreto della vita e della morte, e ora se ne sta qui a trastullarsi
con una stupida studentessa. Devo dire che questa non è davvero una cosa degna
di uno scienziato»), a ilare riprova di quanto la situazione sia completamente
fuori controllo se proprio lui che è la causa di tutto è anche l'unico a
potervi porre rimedio, preferiamo scomodare ancora una volta Worland per darci
soccorso in un compito tanto ingrato quale parlare di questa sequenza e sperare
di essere considerati molto più seriamente di quanto essa non lasci a
intendere:
«Si
può paragonare solo alle straordinarie ed eccessive immagini del taglio
dell'occhio in Un cane andaluso (1929) o la ricerca di Divine nel cane
che defeca in Pink Flamingos (1972) per il suo deciso pugno allo stomaco
e la sua incomprensione concettuale. Eppure la palese assurdità della scena la
separa dagli emotivamente intensi stupri su schermo, come le atroci torture
delle protagoniste de L'ultima casa a sinistra (1973) o l'ordalia di
Sally in Non aprite quella porta (1974). Gordon tiene la macchina da
presa abbastanza lontana da provare la massima di Chaplin per cui il campo
lungo è per le commedie, il primo piano per le tragedie; mentre solo attraverso
pianti e urla, la performance impavida di Barbara Crampton mostra il
terrore e la repulsione della vittima pur conservando quella lieve sfumatura di
esagerazione che sempre contraddistingue le performance di Combs e di Gale. […]
La frase promozionale del Dracula di Bram Stoker (1992) assicurava
convenzionalmente che “l'amore non muore mai”. In Re-animator lo stesso
vale per la lussuria» (Ibidem).
Ci
domandiamo se non sia superfluo ricollegare ancora una volta il freudiano
connubio tra eros e tanathos al nostro discorso sul grado di
persistenza della coscienza nei rianimati, facendo sì che non siano solo
compediati, in questo «fumettistico campo lungo, i desideri repressi di tutte
le Bestie della storia dell'horror nei confronti delle sempre irraggiungibili
belle» (R. Curti – T. La Selva, Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo, cit., pp. 485-486), ma quelli di tutto il genere umano: non è un
caso che nel successivo adattamento lovecraftiano di Gordon, From Beyond –
Terrore dall'ignoto (1986; From Beyond) sia proprio il personaggio
della Crampton quello sessualmente represso e aspirante ad una
“extradimensionale” estensione del piacere (e che vedremo Curti mancherà di
notare nello stesso modo in cui, quando poco prima definiva Re-animator
un “sollazzo ludico” confondeva Hill con Pretorius, il mad doctor
dell'altra pellicola).
Barbara Crampton |
«sesso, violenza, perversioni, mostruosità oniriche e quotidiane,
non più specchietto per le allodole, espediente per attirare pubblico, esca a
buon mercato, ma anzi segno distintivo, paradigma della propria diversità,
bandiera nera del non allineamento culturale e politico, grimardello per
scardinare le regole della morale comune, insozzare i colletti bianchi della
borghesia […], il cinema è spesso la prosecuzione di un discorso che nasce in
altri campi: la letteratura, […] le teorie freudiane […], passando per quel
grande catalizzatore che è il 1968» (p. 132-133).
E come «i teorici della provocazione, destinati a soccombere, chi
più, chi meno, alla propria stessa radicalità» (p. 135), gli autori di Re-animator
vengono costantemente posti sotto accusa dai puristi di Lovecraft, a cui Gordon
ha a più riprese e fin troppo pazientemente spiegato che nello scrittore di
Providence la sessualità, seppur implicita, è costantemente presente, e che,
essendo il cinema un'arte prettamente visiva non si può sempre rifuggire dal
mostrare ciò di cui sta parlando (tuttavia tratteremo molto più
approfonditamente questo discorso solo nell'ultimo capitolo).
Al contempo, Re-animator continua comunque a rimanere
figlio (come tutto lo splatter e tutto il cinema provocatorio o estremo
che dir si voglia) del buon vecchio cinema di exploitation anche nello
“sfruttamento” delle forme di una nuova Barbara (Steele), ma, allo stesso
tempo, continua a sfoggiare, a salvaguardia della propria autorialità, una
logica anticommerciale nell'ennesima coraggiosa decisione, di fronte
all'alternativa di vedere massacrato dalla censura un film così irriverente, di
essere rilasciato unrated, «una mossa che spesso limita il
raggiungimento di pubblicità e di spazio nelle sale» (Worland, p. 243), e
ponendosi allo stesso livello perfino di un capolavoro come Lo squalo
(1974; Jaws) nel voler arricchire, come abbiamo finora potuto già
vedere, con «una quantità di livelli di lettura» (A. Farina, Sparate sulregista! Personaggi e storie del cinema di exploitation, cit., p. 20) un
soggetto che avrebbe potuto molto più agevolmente ricadere nei meri intenti
commerciali della serie B, mentre d'altra parte continua a dimostrare di aver
fatto tesoro di «come il regista di punta della AIP Roger Corman avesse
mostrato come il segreto di una valida produzione di exploitation risieda non
solo nell'elaborare un'idea di forte impatto ma anche nel ottenere il maggior
risultato possibile sullo schermo dall'impiego di un budget modesto» (Worland,
p. 251).
Fortuna volle che gli incassi del film non furono minimamente
danneggiati grazie alla distribuzione fattane proprio da una società che
trafficava con quel famigerato cinema di exploitation a basso costo,
quel mero “specchietto per le allodole”: la Empire Pictures (poi diventata la
Fool Moon) di Albert Band (l'italiano Alfredo Antonini) e del figlio Charles
«che acquista [Re-animator] durante le riprese e [lo] porta a termine
imponendo Ahlberg alla fotografia, Buechler al make-up e suo fratello
Richard alla colonna sonora» (Farina, p. 240), imposizioni (una volta tanto)
con risultati artistici, come abbiamo visto più volte, piuttosto felici.
Insomma, Re-animator continua a ribellarsi indomabile a
qualunque collocazione entro schemi prestabiliti rendendo molto difficile
stabilire seriamente se possa definirsi o meno un film d'exploitation,
facendola “in barba” (e la cosa gli costerà cara) pure alla quella censura che,
dice bene Craven, «cerca sempre di eliminare le parti migliori», potendo, per
la soddisfazione di Paoli, «mostrare qualcosa che non era mai stato visto
prima» (Zelati, p. 249), ma soprattutto dimostrando allora e tuttora, conclude
sempre brillantemente Worland, che «qualunque stile un film dell’orrore adotti,
assistere alla completa dedizione degli autori a spingersi oltre –
psicologicamente, stilisticamente e tematicamente – resta uno dei genuini
piaceri della forma» (p. 252).
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.
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