giovedì 14 novembre 2019

La libidinosa rianimazione di Carl Hill (Parte Seconda) - Re-Animator sviscerato (Capitolo Terzo)


ATTENZIONE: Questo articolo è il sesto della serie ed il secondo del capitolo dedicato alla libidinosa rianimazione di Carl Hill, consigliamo la lettura dei precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Terzo, Paragrafo Secondo
Esperimento riuscito

Partiamo da Stuart Gordon. Ulteriore motivo per suffragare la nostra tesi riguardo a Re-animator quale genuina, oltre che riuscita, messa in scena del grandguignolesco è proprio il fatto che il regista, ai tempi della realizzazione del film, da anni fosse uno dei fondatori ed organizzatori dell'Organic Theatre di Chicago, «un collettivo di scrittori, attori e artisti vari che lavoravano insieme in modo continuo per creare materiale originale», di cui facevano parte anche i due sceneggiatori William Norris e Dennis Paoli, quest'ultimo professore laureato in Letteratura Gotica alla Columbia University (dunque, contrariamente a come sembrano pensarla i puristi di Lovecraft, siamo portati a figurarci una conoscenza adeguata della materia d'origine da parte degli autori), oltre che sceneggiatore di tutti i film di Gordon derivati da un'opera letteraria. Non stupisce che Gordon e altri dell'Organic Theatre vennero perfino arrestati per oscenità, nell'eloquente data del 1968, per una versione hippie, psichedelica e anti-istituzionale del Peter Pan che avevano messo in scena (P. Zelati, American Nightmares. Conversazioni con i maestri del NewHorror americano, cit., p. 509).
Insomma, il regista l'irriverenza ed il teatro li ha nel sangue, e non può essere un caso che la sequenza dell'obitorio faccia un così intelligente uso di luci stroboscopiche e macchine per il fumo. Il tutto coscientemente applicato da Gordon ad un nuovo medium che, attraverso il montaggio, gli permette di travalicare (nei limiti del possibile) ogni ostacolo spaziale, imposto invece dal teatro: in un'inquadratura, quando West viene stritolato dagli intestini di Hill e Cain prova (nonostante tutto) a salvarlo, il dettaglio delle mani dei due che invano si sforzano di afferrarsi l'un l'altra su uno sfondo indefinito di nebbia prepara credere, nelle inquadrature successive, che West non stia più semplicemente sparendo in un angolo della stanza lì accanto coperto dal fumo, ma che venga inesorabilmente trascinato per una distanza incalcolabile in un vasto e freddo limbo senza ritorno (come si può ben immaginare dell'esistenza di ben due sequel, anche Herbert West come molti villains del cinema horror degli anni '80 ha la pessima abitudine di ignorare il fatto di essere morto).

Altra scena fortemente influenzata dalla messa in scena teatrale, afferma lo stesso Gordon, è il lungo one shot successivo alla rianimazione del preside Halsey, dove in campo medio i personaggi di West, Cain, Megan e del custode dell'obitorio interagiscono, con grandissima naturalezza, fra loro, con il cadavere inerte del primo rianimato e con il preside-zombi, senza che la macchina da presa interferisca con qualcosa di più di qualche rapido movimento di assestamento, e tuttavia non mancando di catturare ognuna delle diversissime emozioni presenti in scena che contribuiscono a tenere salda la logica di una frammentaria rappresentazione dell'assurdo che difficilmente viene restituita in una così complessa verosomiglianza: esse spaziano, infatti, dallo shock contenuto a stento di Cain, che si oppone alla disperazione furiosa e isterica di Megan, alla prontezza sicura e calcolata di West, che asseconda l'incuriosito fastidio del custode per essere stato importunamente strappato alla propria coffee break. Gli attori stessi provenivano per la maggior parte da ambienti teatrali, su specifiche direttive riguardo al casting volute dal regista.
E tuttavia, benché questo fosse proprio il suo esordio cinematografico, Gordon non si dimostra a digiuno di basilari ma efficaci tecniche di ripresa, sicuramente grazie ai consigli del già navigato direttore della fotografia Ahlberg e, non è da escludere, anche in conseguenza dell'instancabile e ripetuta visione in fase di pre-produzione, e insieme all'inseparabile produttore Brian Yuzna, di tutti i più famosi film dell'orrore dei cinque anni precedenti, e del capolavoro di Roman Polanski Rosemary's Baby (Id; 1968) in particolare: si pensi a come la macchina da presa sia spesso “posizionata alle spalle di Bruce” («pearching on Bruce shoulders» dice Gordon nel commento audio alla pellicola presente nel bluray della Second Sight) Abbott, il cui personaggio, con la sua “quotidianità” in un mondo di weirdos e mad doctors, è l'unico in grado di porsi come filtro dominante tra il point of view dello spettatore e la pellicola (si ricordi pure che era  l'io-narrante della storia originale), generando pure quella suspense kubrickiana dovuta al seguire con la macchina da presa l'ingresso del personaggio in un luogo sconosciuto e ostile (lo stesso accade per Megan con la camera di West) alle spalle piuttosto che di fronte; o si pensi anche al trucco, molto più cinematografico che teatrale, con cui il professor Hill, ripreso leggermente dal basso rispetto ai suoi interlocutori in modo da enfatizzarne l'altezza, torreggi su ogni altro personaggio come un perfetto villain gotico, che gli autori vollero una volta scartata l'ipotesi di un personaggio dall'aspetto più “prosaico” e naturale. Per non parlare di come l'«infatuazione per i dolly» confessata dal regista riesca ad imporsi anche in un film così spazialmente chiuso e circoscritto, e dove la macchina da presa in mano ad un autore meno sagace correrebbe il rischio di rimanerne soffocata: caso esemplare è il suggestivo pull back shot che allontana velocemente, per tutta la lunghezza di un asettico e freddo corridoio, la macchina da presa da Megan Halsey, mentre la ragazza, diretta all'obitorio, inconsapevolmente si appresta a conoscere il destino toccato al padre; o anche l'inquietante dolly nel laboratorio-scantinato che segue verso il basso i movimenti furtivi di Herbert West, portatosi alle spalle dal professor Hill, e che lentamente va a svelare il manico e la lama della vanga che gli sta accanto, poggiata alla parete.
Come chi già non sa avrà ormai intuito, lo stesso produttore della pellicola, Brian Yuzna, ha avuto un ruolo più che meramente economico nella lavorazione del film, e non a caso annovera nella sua carriera da regista veri e propri capolavori e cult del cinema horror come Society – The Horror (1989; Id), Il ritorno dei morti viventi 3 (1992; Return of the Living Dead III) e The Dentist (1996; Id). Dopo aver convinto Stuart Gordon a realizzare un film, prendendo elementi da un po' tutta la storia di Lovecraft, piuttosto che una serie televisiva a puntate, come del resto era stato realizzato e pubblicato il racconto (tanto che ogni capitolo era introdotto da una sorta di previously), ha partecipato attivamente alla sua scrittura e, sebbene non si faccia problemi ad ammettere che doveva «metterci abbastanza sesso e sangue da renderlo appetibile per il pubblico», egli ha idee molto chiare in proposito, tali da poter trasformare, in tutti i suoi lavori, una necessità produttiva in una cifra stilistica. «La vita comincia con il sesso e finisce con la morte […]. Per cui non si può parlare della morte senza toccare il tema della sessualità o il contrario» sono le sue esatte parole (Zelati, p. 497) e “il buon viso a cattivo gioco” che Yuzna ha sempre fatto nelle vesti di un produttore interessato più all'arte, pure se incentrata sull'eros, piuttosto che agli incassi lo prova il fatto che Society venga ad oggi considerato uno degli horror più anticapitalisti della storia del cinema insieme ad Essi vivono (1989; They Live) di John Carpenter.
Per quanto riguarda il black humor, Stuart Gordon venne ispirato da una sortita fatta prima dell'inizio delle riprese in un obitorio di Los Angeles dove condusse anche gli attori, venendo a conoscenza dello spiccato umorismo macabro degli impiegati del luogo. Il regista racconta come
«era molto importante per me mostrare, attraverso il personaggio di Jeffrey Combs, che i dottori, quando sei vivo, fanno il possibile per salvarti, ma, appena muori, diventi spazzatura. C'è una sequenza nella quale il Dr West cerca di rianimare un cadavere [il primo], e quando [inizialmente] non ci riesce comincia a prenderlo a pugni, come se si trattasse di un pezzo di merda. Lo trovo agghiacciante!» (p. 511)
Siamo ben lontani da un mero “sollazzo ludico”, o comunque dalla puerile comicità tanto invisa ai puristi di Lovecraft. Tanto più che Gordon sa perfettamente come far sì che «una risata nervosa nasca dal disagio psicologico», contrariamente a quella catartica delle commedie “pure”, che semplicemente partono dalla “forma” del genere (e quindi lo parodiano), seppur brillantemente, da Gianni e Pinotto contro Frankenstein (1948; Abbott and Costello Meet Frankenstein) fino a L'alba dei morti dementi (2003; Shaun of the Dead); o quella delle stomachevoli slapstick di Sam Raimi e Peter Jackson, che distaccano lo spettatore dalle epopee splatter di Bruce Campbell e Timothy Balme: in tutti questi esempi è abilmente compreso, ma pure applicato pedissequamente, il basilare assioma per cui «dobbiamo empatizzare con le vittime dell'horror mentre la commedia richiede una certa distanza emotiva che ci permetta di ridere della sfortuna e dei capitomboli dei protagonisti indifesi». Invece, Gordon sovverte anche questi dettami fondamentali, e fonde perfettamente e coscientemente terrore e comicità: quando afferma (in modo assolutamente identico a un affermato maestro come Brian De Palma) che «il pubblico cerca sempre una scusa per ridere durante i film dell'orrore, dunque bisogna dargliene per evitare che ridano al momento sbagliato» (R. Worland, The Horror Film: An Introduction, cit., pp. 243-246), troviamo estremamente difficile anche solo immaginare un argomento con cui poter ribattere.
Allo stesso modo, pure lo splatter e la violenza esplicita sono riconducibili ad un intento, oltre che provocatorio e sovversivo, perfettamente conscio del panorama cinematografico in cui il film avrebbe dovuto imporsi, eppure sempre teso a piegare una logica commerciale a delle specifiche mire artistiche e autoriali: è proprio Dennis Paoli, principale artefice della sceneggiatura (che i vari autori, distanti geograficamente, modificavano via telefono e via fax), a confermarlo aggiungendo altre interessanti chiavi di lettura:
«Basta pensare, per esempio, all'opera di Cronenberg e a quello che Guillermo del Toro ha definito il “tradimento del corpo”. E anche Re-animator rientra perfettamente in questa tematica in quanto, normalmente, il corpo invecchia e muore, nel nostro film, invece, le regole vengono sovvertite con conseguenze nefaste. E se vogliamo allargare il discorso, uscendo dal New Horror americano, io credo che ogni film, di ogni epoca, abbia a che fare con questa tematica: Dracula, Frankenstein, The Wolf Man (L'uomo lupo) ecc. sono tutti film in cui la trasformazione del corpo ha a che fare, in qualche modo, con la sessualità. La Fiction Gotica in generale, secondo me, ruota intorno al problema dell'identità: se noi, infatti, siamo abituati ad indentificarci in base alla nostra mentalità ed alla nostra apparenza fisica, quando il corpo cambia ecco che arriva la crisi di identità. Quando io insegno Frankenstein ai miei studenti, risulta subito molto evidente che il vero mostro è Victor. La sessualità disturbata, altro non è che l'identità disturbata. Inoltre, nell'horror in generale, se lo si analizza strutturalmente, emergono due grandi paure generali: la castrazione per i maschi e lo stupro per le femmine. E questo perché attraverso il simbolo della sessualità, ti viene rubata l'identità» (Zelati, p. 259-230).
Ed è tenendo bene a mente queste ultime parole che possiamo dirci finalmente pronti ad affrontare quella che senza dubbio alcuno si classifica come la scena più riconoscibile e insostenibile di Re-animator, nata con una telefonata ricevuta da Stuart Gordon, e all'altro capo dell'apparecchio Dennis Paoli non riusciva a smettere ridere mentre cercava di dire: «Credo di aver scritto il vero pugno nello stomaco del film visivamente parlando» (Ibidem). Spiegò come in «un malato gioco di parole visivo» (Worland, p. 250) la testa del professor Hill avrebbe praticato del sesso orale (head “giving head”) alla povera Megan, legata al tavolo dell'obitorio. La risposta di Gordon: «Ok, la dobbiamo assolutamente girare».
Sebbene la violenza in sé si risolva solamente in un “tentativo” che, quando ormai il corpo decapitato di Hill sta reggendo la propria testa tra le cosce della ragazza, viene sgarbatamente e tempestivamente interrotto da Herbert West («Ha rubato il segreto della vita e della morte, e ora se ne sta qui a trastullarsi con una stupida studentessa. Devo dire che questa non è davvero una cosa degna di uno scienziato»), a ilare riprova di quanto la situazione sia completamente fuori controllo se proprio lui che è la causa di tutto è anche l'unico a potervi porre rimedio, preferiamo scomodare ancora una volta Worland per darci soccorso in un compito tanto ingrato quale parlare di questa sequenza e sperare di essere considerati molto più seriamente di quanto essa non lasci a intendere:
«Si può paragonare solo alle straordinarie ed eccessive immagini del taglio dell'occhio in Un cane andaluso (1929) o la ricerca di Divine nel cane che defeca in Pink Flamingos (1972) per il suo deciso pugno allo stomaco e la sua incomprensione concettuale. Eppure la palese assurdità della scena la separa dagli emotivamente intensi stupri su schermo, come le atroci torture delle protagoniste de L'ultima casa a sinistra (1973) o l'ordalia di Sally in Non aprite quella porta (1974). Gordon tiene la macchina da presa abbastanza lontana da provare la massima di Chaplin per cui il campo lungo è per le commedie, il primo piano per le tragedie; mentre solo attraverso pianti e urla, la performance impavida di Barbara Crampton mostra il terrore e la repulsione della vittima pur conservando quella lieve sfumatura di esagerazione che sempre contraddistingue le performance di Combs e di Gale. […] La frase promozionale del Dracula di Bram Stoker (1992) assicurava convenzionalmente che “l'amore non muore mai”. In Re-animator lo stesso vale per la lussuria» (Ibidem).
Ci domandiamo se non sia superfluo ricollegare ancora una volta il freudiano connubio tra eros e tanathos al nostro discorso sul grado di persistenza della coscienza nei rianimati, facendo sì che non siano solo compediati, in questo «fumettistico campo lungo, i desideri repressi di tutte le Bestie della storia dell'horror nei confronti delle sempre irraggiungibili belle» (R. Curti – T. La Selva, Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo, cit., pp. 485-486), ma quelli di tutto il genere umano: non è un caso che nel successivo adattamento lovecraftiano di Gordon, From Beyond – Terrore dall'ignoto (1986; From Beyond) sia proprio il personaggio della Crampton quello sessualmente represso e aspirante ad una “extradimensionale” estensione del piacere (e che vedremo Curti mancherà di notare nello stesso modo in cui, quando poco prima definiva Re-animator un “sollazzo ludico” confondeva Hill con Pretorius, il mad doctor dell'altra pellicola).
Barbara Crampton
E ci domandiamo pure se sia davvero necessario suffragare il paragone con Luis Buñuel e John Waters, che Curti, pur con la non altissima opinione che ha di Re-animator, annovera entrambi tra i cosiddetti “teorici della provocazione” secondo una definizione perfettamente ascrivibile agli stessi autori della nostra pellicola:
«sesso, violenza, perversioni, mostruosità oniriche e quotidiane, non più specchietto per le allodole, espediente per attirare pubblico, esca a buon mercato, ma anzi segno distintivo, paradigma della propria diversità, bandiera nera del non allineamento culturale e politico, grimardello per scardinare le regole della morale comune, insozzare i colletti bianchi della borghesia […], il cinema è spesso la prosecuzione di un discorso che nasce in altri campi: la letteratura, […] le teorie freudiane […], passando per quel grande catalizzatore che è il 1968» (p. 132-133).
E come «i teorici della provocazione, destinati a soccombere, chi più, chi meno, alla propria stessa radicalità» (p. 135), gli autori di Re-animator vengono costantemente posti sotto accusa dai puristi di Lovecraft, a cui Gordon ha a più riprese e fin troppo pazientemente spiegato che nello scrittore di Providence la sessualità, seppur implicita, è costantemente presente, e che, essendo il cinema un'arte prettamente visiva non si può sempre rifuggire dal mostrare ciò di cui sta parlando (tuttavia tratteremo molto più approfonditamente questo discorso solo nell'ultimo capitolo).
Al contempo, Re-animator continua comunque a rimanere figlio (come tutto lo splatter e tutto il cinema provocatorio o estremo che dir si voglia) del buon vecchio cinema di exploitation anche nello “sfruttamento” delle forme di una nuova Barbara (Steele), ma, allo stesso tempo, continua a sfoggiare, a salvaguardia della propria autorialità, una logica anticommerciale nell'ennesima coraggiosa decisione, di fronte all'alternativa di vedere massacrato dalla censura un film così irriverente, di essere rilasciato unrated, «una mossa che spesso limita il raggiungimento di pubblicità e di spazio nelle sale» (Worland, p. 243), e ponendosi allo stesso livello perfino di un capolavoro come Lo squalo (1974; Jaws) nel voler arricchire, come abbiamo finora potuto già vedere, con «una quantità di livelli di lettura» (A. Farina, Sparate sulregista! Personaggi e storie del cinema di exploitation, cit., p. 20) un soggetto che avrebbe potuto molto più agevolmente ricadere nei meri intenti commerciali della serie B, mentre d'altra parte continua a dimostrare di aver fatto tesoro di «come il regista di punta della AIP Roger Corman avesse mostrato come il segreto di una valida produzione di exploitation risieda non solo nell'elaborare un'idea di forte impatto ma anche nel ottenere il maggior risultato possibile sullo schermo dall'impiego di un budget modesto» (Worland, p. 251).

Fortuna volle che gli incassi del film non furono minimamente danneggiati grazie alla distribuzione fattane proprio da una società che trafficava con quel famigerato cinema di exploitation a basso costo, quel mero “specchietto per le allodole”: la Empire Pictures (poi diventata la Fool Moon) di Albert Band (l'italiano Alfredo Antonini) e del figlio Charles «che acquista [Re-animator] durante le riprese e [lo] porta a termine imponendo Ahlberg alla fotografia, Buechler al make-up e suo fratello Richard alla colonna sonora» (Farina, p. 240), imposizioni (una volta tanto) con risultati artistici, come abbiamo visto più volte, piuttosto felici.
Insomma, Re-animator continua a ribellarsi indomabile a qualunque collocazione entro schemi prestabiliti rendendo molto difficile stabilire seriamente se possa definirsi o meno un film d'exploitation, facendola “in barba” (e la cosa gli costerà cara) pure alla quella censura che, dice bene Craven, «cerca sempre di eliminare le parti migliori», potendo, per la soddisfazione di Paoli, «mostrare qualcosa che non era mai stato visto prima» (Zelati, p. 249), ma soprattutto dimostrando allora e tuttora, conclude sempre brillantemente Worland, che «qualunque stile un film dell’orrore adotti, assistere alla completa dedizione degli autori a spingersi oltre – psicologicamente, stilisticamente e tematicamente – resta uno dei genuini piaceri della forma» (p. 252).


Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.

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