Il genere slasher è, certamente, uno dei più apprezzati ed amati del panorama horror, basti pensare che quest'anno, la nota serie antologica "American Horror Story", si è aggiornata per adattarsi a questo sottogenere, capace di imporre una nuova generazione di icone orrorifiche, segnando il passaggio dall'horror classico dei mostri Universal e della Hammer, composto dalle creature tipiche della letteratura, a quello moderno, dove le creature delle tenebre cedono il posto a "spauracchi" più vicini ai veri orrori della nostra realtà, assassini spietati e dai metodi sanguinosi che uccidono senza una vera motivazioni, mostri umani e verosimili che ci fanno paura in quanto noi stessi potremmo, chissà, ritrovarci vittima di un vero maniaco con una maschera da hockey ed un machete, dopotutto, la cronaca nera, c'insegna che nessuno è più al sicuro. Gli spettatori di "Halloween" di Carpenter rivedono in Michael Myers le loro paure attuali, vivide, non astratti ricordi d'incubi d'infanzia che potrebbe suscitare un ennesimo conte Dracula o un poco animalesco uomo lupo, riconoscono in lui una figura inedita, che ispirerà il genere con numerosi imitatori, più o meno riusciti, e segnerà indelebilmente la terza grande era del cinema horror.
Eppure, pensare a "Halloween" come un vero capostipite è commettere un errore, o meglio, sì, fu il primo film del genere a riscuotere un successo tale, ma non fu certo il primo a spostare il proprio focus su un serial killer umano spostandosi dal thriller ed entrando nei meccanismi dell'horror, basti pensare a "Psycho" di Alfred Hitchcock, che fece questo quasi 20 anni prima, o ai vari gialli italiani che già stavano tastando il terreno, in continuo bilico tra thriller e horror per atmosfere, scene e temi. Ma, in questi film, a differenza del capolavoro di Carpenter, il fulco narrativo centrale s'identificava con l'indagine degli omicidi, più un contorno che altro, più legati a quella narrativa poliziesca, del mistero. Questo macroraggruppamento viene, solitamente, definito "protoslasher" e, proprio il film che tratteremo oggi, ne fa parte, pur distinguendosi dal resto per la sua estrema vicinanza allo slasher effettivo, quasi a contestare la legittimità della "corona" da sempre detenuta da "Halloween": il film in questione altri non è che l'inquietante "Death House" ("Silent Night, Deadly Night") del 1972, per la regia di Theodore Gershuny e la produzione di un giovane Lloyd Kaufman, fondatore della "Troma".
1950, Wilfred Butler muore arso vivo per quello che appare come un incidente. 20 anni dopo, suo nipote Jeffrey decide di vendere la vecchia casa dell'uomo mandando in città il suo avvocato Carter per il pagamento da parte degli abitanti più prominenti della cittadina, decisi ad acquistare la proprietà. Ben presto, peró, un segreto vecchio due decadi che riguarda tutta la comunità riemergerà portando con sè molte vite...
Come abbiamo già parlato precedentemente, il film, si presenta come all'avanguardia nella trasposizione del tema trattato per i suoi tempi e come un pezzo di storia fondamentale per la comprensione dell'evoluzione del genere slasher, ma, nonostante tutto ció, non bisogna tralasciare alcune sue pecche chiaramente visibili. In primo luogo, se parliamo di difetti in piena vista, abbiamo una rudimentale fotografia, così scura da rendere di difficile comprensione le scene che ci vengono mostrate e che può creare non pochi fastidi, nonostante sia, certamente, colpa dei mezzi ristretti di una produzione quasi del tutto indipendente e non una scelta voluta, a differenza della brillante idea adottata per i flashback ambientati nel 1950 dove, con una tinta seppia, forti contrasti e makeup, si va a ricreare l'atmosfera di un vecchio film espressionista tedesco.
Un altro elemento che appesantisce l'opera è la narrazione di Diane Adams (Mary Woronov) che, spesso e volentieri, non va a braccetto col girato e, in certe occasioni, appare inutile: mostrare è sempre meglio che raccontare nel media cinematografico e, rinarrare ció che si è già visto o che si vedrà, è un mero rallentamento del ritmo della pellicola. Ammenochè farlo non sia qualcuno come Quentin Tarantino, che sia chiaro. Questi "voiceovers", in asincronia col filmato, inoltre, confondono ancora di più la trama, già abbastanza ingarbugliata di suo, anche a causa di una scrittura molto basilare, a tratti televisiva, quasi ingenua.
D'altro canto, la pellicola, acquisisce ancora di più valore quando si va a vedere che, oltre ad un giovane John Corradine, in essa figurano molti ex componenti dei "Warhol superstars", personalità artistiche promosse da Andy Warhol in persona tra il 1960 ed il 1970: Mary Woronov, Ondine, Candy Darling, Kristen Steen, Tally Brown, Lewis Love, il regista Jack Smith e l'artista Susan Rothenberg.
In conclusione, non il miglior film del suo genere, ma comunque una piccola gemma perduta di grosso valore se vista nel suo insieme e, comunque, godibile, forse ora più di prima a causa della maggior flessibilità che siamo abituati a concedere a lungometraggi di genere di quel periodo, quasi perdonando la loro scarsità di mezzi ed apprezzandone lo sforzo, in un'analisi più del loro spirito che della loro forma: se preso sotto questi termini, infatti, "Death House", diviene una narrazione interessante e, a tratti, accattivante, con alcuni momenti effettivamente ben realizzati nonostante il suo sviluppo zoppicante.
La pellicola è stata, inoltre, da poco distribuita per la prima volta in italiano dalla Home Movies, sotto la collana "Opium Visions" da cui, in futuro, attingeremo nuovamente per altre recensioni che vi consigliamo di non lasciarvi scappare.
Cover per l'edizione della collana "Opium Visions" |
Articolo di Robb P. Lestinci
Nota: se l'edizione dovesse risultare esaurita su Amazon potete rivolgervi direttamente a Home Movies su Facebook
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