Capitolo Terzo, Paragrafo Primo
Tagli, montaggio, splatter
Era evidente nel precedente capitolo l'assenza di rimandi a quello che senza dubbio
resta il più memorabile morto vivente di Re-animator, un'assenza voluta
in quanto, proprio in ragione della sua centralità e peculiarità, va
riservatogli un discorso totalmente a parte, pur esso restando perfettamente
coerente con tutto quello detto finora sui suoi “simili”.
È,
infatti, al punto della storia cui si è giunti che finalmente «il dr Hill può
gradualmente emergere come vero e maggiore antagonista» (R. Worland, The Horror Film: An Introduction, cit., p. 248): resosi ovviamente conto, dopo
alcune analisi, che Halsey non è più “vivo” nel comune senso medico del termine,
il professore si reca a far visita a West nel suo laboratorio sotterraneo per
ricattarlo nel tentativo di prendersi il merito della sua scoperta. La
ricompensa di tale ambizione è fin troppo ovvia: West arriva alle spalle
dell'ignaro rivale e lo atterra con un colpo di vanga, «poi affondando la lama
nella gola dell'uomo in un primo piano, con l'accompagnamento sonoro di un
orribile frantumarsi e gorgogliare. [Subito dopo, u]n altro primo piano di West
coperto di sangue che ribatte furiosamente, “Plagiaro!”» (Ivi, p. 249)
(semplicemente «Bastardo!» nella versione italiana), mentre, facendo pressione
sulla lama della vanga col piede, letteralmente decapita il professore.
Centrale sequenza, non solo iconica ma vero e proprio cardine, essa prelude
stilisticamente e comporta diegeticamente il profuso, ma mai invasivo, impiego
di questo tipo di inquadratura per tutto il resto della pellicola, a riprova
della capacità di Stuart Gordon di “fare di necessità virtù”, ricordando il
modo in cui, secondo il già citato Barbaro, i più grandi registi horror
alternino sapientemente e «velocemente primi piani a campi lunghissimi,
inquadrature anomale e inquietanti (di derivazione espressionista) a fuori
campo altrettanto minacciosi, che mantengono il ritmo incalzante» (A. Barbaro, Frankensteinun mostro di celluloide tra horror e parodia, cit., p. 27). Del resto, come
pure si era parlato di tale messa in scena espressionista ostentata da certe
sequenze della pellicola, si era già accennato anche alla quasi totale mancanza
di panoramiche sulla città di Arkham e di campi lunghissimi in generale (fatta
eccezione per qualche inquetante establishing shot come quello
d'apertura dell'Università di Zurigo, filmato in realtà a Pasadena), eppure
questa mancanza non impedisce a Gordon di sfruttare quei pochi mezzi a sua
disposizione per adempiere alla sopracitata basilare messa in scena propria del
genere e trarne il miglior risultato possibile: quando West decide di rianimare
il corpo e la testa di Hill, la seconda, finalmente dotata della capacità di
pensare e parlare, deterrà il monopolio di numerosi primi piani che, grazie al
sapiente uso del montaggio alternato, non rischiano mai di svelare (almeno non
più di quanto necessiti la grottesca ilarità del tutto) il semplice trucco
dell'attore nascosto, a seconda della scena, sotto la vaschetta metallica che
la contiene o le mani del torso che la sorregono. Un'efficace soppressione del
fuori campo, come nella scena esilarante (e la preferita dal regista) in cui
Hill cerca per la prima volta di governare a dovere il proprio corpo e dove i
goffi capitomboli dello stesso si alternano con le espressioni di frustrazione
del caratterista David Gale, raggiunta attraverso un impiego di una tecnica
registica tanto più abile se si pensa alla sequenza dove West e Cain cercavano
uno scenicamente inesistente gatto-zombi nello scantinato (l'effetto speciale
del gatto rianimato creato da Anthony Doublin è effettivamente, lo ammette
anche Yuzna, il meno riuscito della pellicola, tanto meglio che sia stato
mostrato il meno possibile), scena in cui Gordon, al contrario, valorizzava
proprio il fuoricampo attraverso l'illusione che il gatto si muovesse nei
frangenti di oscurità in cui lo scantinato, ripreso in campo medio, veniva
precipitato ciclicamente dalla costante oscillazione di una lampada.
Ad
ogni modo, la sequenza della decapitazione e rianimazione di Hill, oltre ad
essere «il momento da cui in poi prevarranno i grotteschi momenti di delirio»
(Worland, p. 246), compendia perfettamente l'essenza insieme stilistica e
tematica di tutta pellicola, riunendo la sua natura postmoderna ad una
rinnovatamente potente e oltraggiosa carica splatter, connubio non
insolito nel panorama horror americano degli anni '80 (così come
l'intelligente impiego di budget limitati), ma che in Re-animator
raggiunge livelli difficilmente eguagliabili. Anche perchè, sebbene la scena
«diventi totalmente comica quando la testa di Hill effettivamente torna in vita
e rantola, “Sei un... bastardo!” mentre West annota diligentemente l'enunciato
sul suo taccuino da laboratorio» (p. 249), questo non produce esclusivamente
l'effetto “parodico” (aggettivo che abbiamo visto essere inappropriato nel
Primo Capitolo) di cui parlava Ronchi, rimanendo la cupa atmosfera dello
scantinato e la realistica crudezza degli effetti speciali molto più vicini
alla visione pessimista (sviscerata nel Secondo Capitolo), che poi costituisce
il vero motivo per cui il professor Hill non poteva non costituire un'eccezione
tra i rianimati: il fatto che una testa recisa dal resto del corpo continui a
parlare, e che inizialmente preoccupò moltissimo gli autori portandoli
addirittura ad ingegnarsi con un pretesto per cui essa potesse essere ancora
attaccata ai polmoni, parrebbe, ad un ragionamento superficiale, troppo
scostante dall'approccio così scientifico finora ostentato dalla pellicola; non
fosse che ciò di veramente fondamentale in tale approccio, impossibile da
rispettare minuziosamente in qualunque (science) fiction orrorifica
dove anche a detta dello stesso Yuzna una «testa scorporata rappresenta
l'intelligenza» senza il bisogno di
altre spiegazioni (P. Zelati, American Nightmares. Conversazioni con imaestri del New Horror americano, Profondo Rosso, Roma 2014, p. 499), era
costituito dall'incontrovertibile verità che dalla morte non c'è ritorno, posto
di non diventare dei “fenomeni da baraccone” (proprio con queste parole West
prenderà in giro Hill nel finale) in cui sussitono soltanto le pulsioni più
infime, come quella sessuale nella sua accezione più brutale e primitiva.
E
infatti, dopo essere fuggiti dal laboratorio di West con una certa quantità del
suo siero, testa e corpo si adoperano (non senza difficoltà) a porre le basi
per il delirante finale dove un gruppo di rianimati, tra cui anche Halsey,
lobotomizzati e controllati da Hill lo assistono nel rapimento di Megan, di cui
il professore era sempre stato ossessivamente innamorato, conducendola priva di
sensi nell'obitorio della Miskatonic.
Questo
risvolto di trama permette anche di ricordare brevemente un altro interessante
legame che intercorre tra il personaggio di Hill ed il montaggio della
pellicola: alla sua prima comparsa in scena il professore ci veniva presentato
come un eminente studioso del cervello umano e come l'inventore di un
innovativo strumento per operarlo, una sorta di “trapano-laser”, che userà
appunto per lobotomizzare e governare le fragili menti degli altri non-morti;
tuttavia, questo dettaglio narrativo si allacciava ad una più ampia sottotrama
che vedeva il professore in possesso di poteri ipnotici alla stregua di
Caligari, Mabuse o dei mesmeristi dei gotici degli anni '60 e che giocava un
ruolo fondamentale proprio nella scena dove Hill convinceva West a mostrargli
il reagente: ciò venne considerato superfluo in sede di montaggio dall'editor
Lee Percy che riuscì brillantemente a eliminare le scene o singole inquadrature
su cui si reggeva la sottorama (materiale ormai reperebile tanto singolarmente
che in edizioni estese della pellicola) senza che la narrazione ne risentisse
nella consequenzialità e logica degli eventi. E tutto ciò, ovviamente, col
beneplacito del regista.
Ritornando
all'obitorio e procrastinando ancora per qualche pagina la scena più iconica e
controversa del film che vi si svolge, sono proprio la regia mirata ed il
montaggio sincopato, in cui i primissimi piani di Hill e di West si alternano
con le inquadrature degli zombi che aggrediscono Megan e Daniel, a dare l'idea
di folle delirio generale in una grande stanza scenicamente quasi vuota, appena
alcune inquadrature prima mostrataci con una notevole profondità di campo,
ripresa dalle spalle di West, che ora è diventato una sorta di antieroe e
quindi più vicino allo spettatore, mostrando teatralmente tutti i
personaggi coinvolti e i cadaveri ancora dormienti; e sono regia e montaggio a
creare l'illusione che il suddetto “gruppo di rianimati”, costituito da soli
sei elementi oltre a Hill e Halsey, ci appaia, così soddisfacendo aspettative e
intenzioni degli autori nel fronteggiare ancora una volta la scarsità di mezzi,
molto più numeroso: una vera e propria «orda di creature che solo la follia – o
peggio – avrebbe potuto creare» (H.P. Lovecraft, Herbert West, rianimatore,
in Tutti i racconti 1897 – 1922, G. Lippi (a cura di), cit., p. 237),
riportata alla vita dal finale del racconto di Lovecraft. Worland disseziona
minuzioso e irreprensibile l'intera scena come solo lo stesso Herbert West
sarebbe capace:
«Semplici
stratagemmi come rapidi tagli di montaggio, luci stroboscopiche e macchine
fumogene valorizzano gli scorci degli esseri nudi coperti di ferite, bruciature
e incisioni chirurgiche spalancate che circondano i protagonisti. Gli effetti
speciali, come per lo zombi lasciato in obitorio con tubi e cavi ancora
attaccati al corpo, si rivelano genuinamente orribili mentre continuano le gag
già viste. L'annoiato guardiano, poco toccato dal trambusto nell'obitorio
finchè la testa di Hill non ne viene catapultata fuori [da Halsey in un
riconoscimento in extremis della figlia che lo porta ad essere smembrato
dagli altri zombi], se ne resta imbambolato abbastanza a lungo da poter vedere
la martoriata e insanguinata testa del chirurgo volare attraverso il corridoio
e spappolarsi contro il muro. L'ultimo comico shock deriva dalla doppia
iniezione di reagente fatta da West al corpo di Hill la cui cassa toracica si
spalanca e i cui intestini si trasformano in tentacoli che afferrano e
stritolano West come un pitone bulboso, un'immagine grottescamente tanto
fallica che anale che pone fine all'assurda danza del gore e del burlesque di Re-animator»
(p. 251).
E qui si torna a
Barbaro, la cui ideale messa in scena di un film dell'orrore abbiamo visto
sovrapporsi in maniera quasi speculare a quella finora vista in Re-animator,
eppure il critico manca di citare il film di Gordon quando liquida brevemente
il cinema splatter degli anni '80, facendosi portavoce di molte simili
linee di pensiero, definendolo generalmente di basso livello e addirittura
paragonandone, in maniera meno lusinghiera di come facemmo noi nel Primo
Capitolo, al più “raffinato” La moglie di Frankenstein «l'eccessiva
estremizzazione di questi elementi visivi [e come] porti questo tipo di horror
a sfociare nella comicità (piuttosto che nella paura)» (p. 178). Ma ancora una
volta Worland, continuando la sua ineccepibile analisi, ci viene in soccorso
dimostrando invece come questa
«estetica da Grand
Guignol, di torturate “marionette” umane ed effetti grottescamente ingegnosi
incombe con un'amorale dedizione al supplizio verso chiunque suscitando
l'effetto descritto da William Pau di un tunnel dell'orrore; o forse il senso
dello spaventoso, dell'esilarante e perfino la nauseante sensazione provocata
da un'altra attrazione carnevalesca, le montagne russe» (pp. 251-252).
Un risultato simile
non sarà certamente “raffinato” (e nessuno ha detto che voglia o debba
esserlo), ma quantomeno degno di considerazione, alla luce delle analisi fatte
nel Secondo Capitolo, sul piano concettuale, oltre che su quello prettamente
visivo ed emotivo, e continuiamo a non vedere alcuno imporsi della “comicità” o
dell' “esilarante” sulla “paura” o sullo “spaventoso” (o viceversa); pittosto,
quando l'attimo prima di venire ucciso il professor Hill esclamava, fiero della
sua “nuova scoperta”, «Io diventerò famoso!», si viene seriamente portati a
dubitare che il confine tra le due cose sia poi così netto, proprio come il
confine tra la vita e la morte, a cui l'abiezione e l'arrivismo di Hill
“persistono” parfitianamente.
È opportuno ricordare
che il Grand Guignol (il nome deriva proprio da quello di una famosa
marionetta) era un teatro parigino attivo tra la fine dell'Ottocento e la prima
metà del Novecento, che metteva in scena spettacoli incentrati sulla
distruzione del corpo aventi per interpreti attori manipolati come pupazzi e
mescolanti sessualità, violenza e slapstick; esso, difatti, non solo
anticipò tutto l'horror splatter degli anni '80, «sintesi
mostruosa e ricucitura arlecchinesca di difformità inconciliabili» dove il
sesso «[s]i intrufola nelle pieghe della (nuova) carne» (R. Curti – T. La
Selva, Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo, Lindau, Torino
2003, p. 483-485), e di Re-animator in paricolare, se si pensa al
famigerato spettacolo dove la testa di un condannato alla ghigliottina veniva
tenuta in vita da un apperecchio scientifico: infatti «[i]l Gran Guinol vedeva
la natura umana in maniera pessimistica, enfatizzando le sue crudeltà, lussuria
e spesso mortali meschinità» (Woiland, p. 248), una chiave di lettura in più
per rendersi conto che, sebbene ci abbia appena fornito degli ottimi enunciati
per ricondurre lo splatter al Gran Guinol sottolineando la basilare
natura carnevalesca e da ligottiano “teatro grottesco” di
entrambi, anche Curti sembra non cogliere in Re-animator una delle
massime concretizzazioni di tale potenziale pessimista, liquidandolo
semplicemente come un «sollazzo ludico» (Curti – La Selva, p. 483).
E, ancora una volta,
i due sequel della pellicola comprendono perfettamente e portano avanti
questa logica dove splatter e ironia convergono in un'inevitabile e
dissacrante visione pessimistica e meccanicista dell'esistenza umana: basti
pensare a quando in Re-animator 2 Herbert West, deciso a portare avanti
i propri esperimenti focalizzandosi sulla rianimazione di singole parti di un
corpo umano (assemblandoli nei modi più grotteschi e perturbanti possibili,
altro elemento ripreso dalla storia originale), ribatterà a Daniel Cain, stufo
dei metodi sadici del collega ma ancora intenzionato ad aiutare le persone e
non certo i loro “pezzi” («I'm trying to save whole people, not parts!»),
come un individuo non sia altro che un insieme di pezzi («Exactly! And what
are people, Dan, over and above a collection of living parts?»), «un
meccanismo, un insieme di parti fatte come sono fatte, che è un processo ad
orologeria anziché un essere immutabile nella sua essenza» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, cit., p. 79); oppure si pensi al
risultato deflagrante e disgustoso che in Beyond Re-animator segue
l'iniezione di reagente che si pratica un tossicodipendente, non poi così
diverso, eccetto nella rapidità, da quello che una comune dipendenza da droghe
può provocare sul fragile corpo umano, e beffardamente molto meno discreto di
quello descritto nel racconto di Lovecraft dove «l'effetto sarebbe stato nullo
se nel corpo fosse rimasta una scintilla dell'originaria vitalità» (p. 261)
(per Re-animator pure era stata originariamente girata una sequenza in
cui si scopriva che West, in puro stile holmesiano, era dipendente da minuscole
dosi del proprio reagente, ma anch'essa riposa ormai nel cimitero delle scene
tagliate).
Infine, chi ancora si
sentisse in dovere di credere che l'estetica splatter di Re-animator
sia da ricondursi a niente altro che un mero conformismo rispetto al panorama
cinematografico dell'epoca e non a scelte precise e oculate degli autori, non
ha che da spendere solo un altro po' di tempo a leggere il seguente
paragrafo; ci teniamo però a concludere questo ricordando che in suddetto
panorama cinematografico, checchè se ne dica, il film di Stuart Gordon ha
comunque goduto sempre di ottima compagnia nel mettere in scena «i corpi degli
zombies [...] come i pezzi di un giocattolo rotto» all'insegna di
un'irriverente black humor, come ricorda Angelo Moscariello:
«In opere come Bad
Taste, Re-animator e Il ritorno dei morti viventi le cruente
mattanze dei morti resuscitati avvengono contro ogni legge fisica in un delirio
di arti amputati eppur ancora viventi che si era visto soltanto nei cartoni
animati (e in questo la horror comedy realizza il sogno di Ėjzenštejn
di poter girare un film dal vero come fosse un cartoon di Walt Disney)» (A.
Moscariello, Horror Comedy. Horror e Humor nel cinema, Profondo Rosso,
Roma 2016, pp. 108-109).
CONTINUA...
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.
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