giovedì 17 ottobre 2019

La disumana rinascita di Alan Halsey (Parte Seconda) - Re-Animator sviscerato (Capitolo Secondo)


ATTENZIONE: Questo articolo è il quarto della serie ed il secondo del capitolo dedicato alla rinascita di Alan Halsey, consigliamo la lettura dei precedenti paragrafi (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.

Capitolo Secondo, Paragrafo Secondo
Persone, marionette, zombies

Del resto gli zombi sono e siamo noi. Nella sequenza iniziale di Zombi ciò era esplicitamente manifesto quando Gaylen Ross asseriva che «stiamo perdendo con noi stessi», ovvero che la colpa dell'apocalisse imminente dovuta al proliferare dei non-morti è da imputarsi esclusivamente agli esseri umani, che non solo offrono la materia prima perché nascano (e quindi sono essi stessi) gli zombi, ma non fanno che uccidersi a vicenda creandone di nuovi undead (molto più cooperativi di loro). Ma questo concetto è più insidiosamente, e con una forza pessimistica molto più distruttiva, incarnato proprio dai rianimati di Herbert West e dalla loro natura, fondamentalmente, di meri esseri umani, solo privati della ragione, della coscienza, dell'identità. Ma poi esistono veramente istanze del genere, prerogative della nostra specie che ci rendono uomini e non zombi, persone e non bestie, individui e non animali, o per caso siamo sempre stati tali fin da quando abbiamo iniziato a vivere e a pensare l'illusione che ci nasconde tutto questo?
In realtà, rispetto ai tempi in cui la Shelley concepì la prima e molto poco verosimile rianimazione di un essere umano, le nostre conoscenze in merito a ciò che nel cervello venga a costituire la personalità e la coscienza individuali di ciascuno di noi esseri pensanti sono progredite al punto da permetterci rispondere più chiaramente. Jay Goodwin e David Lynn ne parlano a lungo proprio in un saggio che fa riferimento al capolavoro gotico da cui abbiamo iniziato il nostro discorso:
«Sappiamo che la materia organica necessita di molteplici processi elettrici, dagli elettroni trasportati durante la respirazione e durante i processi chimici che traggono energia dagli zuccheri, fino alle differenze di voltaggio tra le membrane cellulari che trasmettono segnali attraverso i nostri percorsi neurali, fino al cervello stesso ponendo così le basi e le fondamenta della coscienza. […] La moderna scienza cognitiva e le neuroscienze computazionali suggeriscono che le strutture psicologiche e le dinamiche biochimiche del cervello, l'enorme e complessa rete di connessioni sinaptiche tra i neuroni, rappresentino una mappatura della coscienza emergente e della memoria crescente di una particolare persona. […] La storia di Frankenstein suggerisce che la mente e la personalità della Creatura siano dovute principalmente a come essa viene nutrita, a come il suo creatore e gli altri vi interagiscono e rispondono, e pochissimo, se non per nulla, alla sua composizione intrinseca» (J. Goodwin – D. Lynn, What would Mary Shelley say today?, in S. Perkowitz – E. von Mueller (ed.) Frankenstein: How a Monster Became an Icon, cit., p. 208).
E benché questo sintetico ma chiaro quadro scientifico sia perfettamente in sintonia con la convinzione, già letteraria, di West sul fatto «che la vita non sia altro che un processo chimico e fisico e che la cosiddetta “anima” sia un mito» (H.P. Lovecraft, Herbert West, rianimatore, in Tutti i racconti 1897 – 1922, G. Lippi (a cura di), cit., p. 244), i due studiosi hanno invece preso in considerazione, pur guardandovi con scetticismo scientifico, l'idea che la mente umana costituisca una tabula rasa e che, fosse possibile riportarla indietro dalla morte, potrebbe sottoporsi proprio a quella “rinascita” romeriana di cui si era parlato, che nell'infelice Mostro di Frankenstein avrebbe solo avuto un esito sfortunatamente negativo.
Eppure gli zombi di Re-animator non godono neppure di questa possibilità ed è ancora una volta l'originale racconto lovecraftiano a espletarne il motivo: ciò avviene «perché nell'intervallo seguito alla morte potevano essersi deteriorate alcune delle più delicate cellule celebrali» (Ivi, p. 247), da qui l'ossessione di West di procurarsi cadaveri freschissimi anche a costo di uccidere. Tuttavia, come già accennato, solamente in una occasione, sia nel racconto di Lovecraft che nel film di Gordon, West riuscirà a ripristinare le capacità cognitive di uno dei propri esemplari, mentre tutte le altre rianimazioni, anche a prescindere dalla freschezza dei soggetti, dovranno arrendersi all'incontrovertibile dato di fatto per cui «le moderne scienze biochimiche e mediche hanno dimostrato che la vitalità degli organismi deceduti e di parti del corpo trapiantate sono particolarmente sensibili al trascorrere del tempo; una battaglia contro la putrefazione favorita dalla crescente entropia e dai disordini molecolari» (J. Goodwin – D. Lynn, Ibidem), che non durerebbe neppure quel margine da sei a dodici minuti che il professor Hill ritiene preludano la morte cerebrale, figuriamoci tutto il tempo trascorso prima che l'influenza di una cometa faccia risorgere i morti o che il dottor Frankenstein si decida ad esumare cadaveri per comporre la sua creazione: non è un caso che, nell'omonima pellicola, la morte proprio della “Moglie del rianimatore”, creata nella maniera più tradizionale mettendo insieme diverse parti del corpo provenienti da donne differenti, si risolverà in uno splatter e grottesco (commenta sempre laconicamente Herbert West) «rigetto di tessuti».
Alle più moderne nozioni scientifiche, inoltre, fa riferimento proprio quell'impulso elettrico che dovrebbe costituire la matrice della coscienza, battezzato da West in Beyond Re-animator come “nanoplasma”, ed il suo imporsi, seppur con una certa ambiguità dichiaratamente voluta dal regista, sulle superstizioni riguardanti l'anima del medico carcerario e nuovo cadetto del mad doctor lovecraftiano. Ma, ancora una volta, invece di sconfiggere la morte gli esperimenti del rianimatore ne confermeranno paradossalmente l'insormontabilità, visto che il nanoplasma può essere restituito ad un trapassato solo “rubandolo” da un essere vivente dalla simile struttura celebrale (umano o ratto, e quest'ultima alternativa porta risultati che si lasciano tranquillamente immaginare), uccidendolo; cosicché, invece di dare risposte, gli ennesimi esperimenti mirati a comprendere il funzionamento di questo processo e i conseguenti zombi governati da una personalità che non appartiene loro (ancora una volta qualcosa di duplice e grottesco), non fanno che portare a nuove domande sulla nostra natura di creature pensanti e individuali: «cos'è che ci rende oggi la stessa persona di ieri, di un anno o dieci anni fa?» (J  C. Derksen – D.H. Hick, Your Zombie and You: Identity, Emotions and Undead, in C. M. Moreman – C. J. Rushton (ed.) Zombies are Us. Essays on the Humanity of the Walking Dead, McFarland, Jefferson 2011, p. 17).
Provano a darsi una risposta, proprio come noi affidandosi alla moderna figura degli zombi nelle loro congetture, Craig Derksen e Darren Hudson Hick:
«molti respingono l'idea che avere il medesimo corpo senziente in momenti differenti – che sia vivo o morto-vivente – sia sufficiente (o addirittura necessario) per essere la stessa persona, ed i filosofi tendono più comunemente ad aderire a concetti di continuità psicologica dell'identità personale. […] Secondo [John] Locke, sei la stessa persona che eri una settimana fa perché partecipi al medesimo flusso di coscienza. In particolare mantieni una catena ininterrotta di memorie con quell'individuo.» (Ivi, p. 18)
E per spiegarsi come mai, a discapito di questa visione, gli zombi (soggetto tranquillamente rimpiazzabile da una persona mentalmente instabile, sia per uscire dall'ambito della fiction che per fare un nuovo parallelismo con la condizione di Alan Halsey) «non sono perciò individui, pure se assomigliano a individui» (R. Ronchi, Zombie Outbreak. La filosofia e i morti viventi, cit., p. 29), come mai siano e non siano la stessa persona che erano da vivi non meno di quanto siano e non siano vivi allo stesso tempo, sempre Derksen e Hick ricordano come
«[Derek] Parfit respinge totalmente il concetto di “identità personale” e parla invece di “persistenza”. […] Per esempio, mentre in un senso siamo la stessa persona che eravamo a tre anni di età, in un altro siamo una persona completamente diversa: non abbiamo gli stessi ricordi, probabilmente una personalità totalmente diversa, e neanche una cellula di allora nel nostro corpo. La visione di Parfit suggerisce di usare una logica meno rigida per parlare di identità personale. Invece, direbbe, il bambino che eri persiste – perlomeno in una misura degna di nota. […] In breve, se sperimenti la convinzione di ricordare qualcosa che è avvenuto a qualcuno, e questa convinzione si basa su un'esperienza nella corretta logica consequenziale, allora essa è una leggittima memoria-q, anche se, letteralmente parlando, la persona a cui è capitata l'esperienza non eri tu [ma il bambino]. Se, per qualche motivo, la zombificazione permettesse alle memorie-q di travalicare la barriera della morte, allora nel tuo zombi persisterebbe una memoria-q della tua esperienza? Parfit suggerisce che la persistenza avviene per gradi: maggiore è il numero delle connessioni-q (tra cui memorie-q, desideri-q, intenzioni-q ecc.) maggiore sarà la persistenza» (P. 19).
Questo non rende certo più vicina e rassicurante la figura del rianimato, e il suo basso grado di persistenza assottiglia in maniera sempre più disturbante la linea di confine che separa noi e lui; inoltre, accelera l'inesorabile discesa verso l'abisso a cui ci spingono queste conclusioni il pensiero di un altro e ancora più nichilista oppositore del concetto di “identità personale”, il già citato Thomas Ligotti, per cui «[l]a qualità più perturbante dell'io è che nessuno è mai stato in grado di portare la minima prova a favore della sua esistenza» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, cit., p. 91), proprio come l'anima, e che, in quella che pare quasi una postilla orrorifica al pensiero di Parfit, afferma che
 «gli psicologi cognitivisti, i filosofi della mente e i neuroscienziati che estendono le teorie sull'inesistenza dell'io come lo abbiamo sempre creduto non dicono che l'io non esiste; diffondono soltanto complesse io-costruzioni che risparmiano all'io qualunque dubbio sulla sua esistenza. E se qualcuno cerca di dimostrare che dietro i nostri occhi non c'è un io che guarda il mondo lo ascoltiamo come se stesse dicendo che siamo stati invasi dagli ultracorpi o che ci siamo fusi nella Cosa» (Ivi, p. 92).
Questo accenno a due capolavori del genere sci-fi horror (non dimentichiamo che Frankenstein viene considerato da Brian Aldiss il primo racconto di fantascienza) non è affatto casuale visto che per Ligotti la massima espressione di orrore sovrannaturale, forma d'arte che concepisce l'inconcepibile in una sequela di paradossi perturbanti come gli stessi morti viventi, è la famigerata «marionetta che si libera dai suoi fili e si muove da sola» (p. 16) proprio perché compendierebbe in tal modo la condizione ugualmente perturbante dell'essere umano, la cui coscienza oltremodo sviluppata e contronatura gli rende impossibile vedere chiaramente la sua reale condizione esistenziale:
«Ma può il volgare materalista dirsi consapevole che il suo non essere nessuno sia un fatto e però continuare a fingere di essere qualcuno? Non sarebbe un'altra versione della domanda di [Thomas] Metzinger: “Ma si può davvero credere nel determinismo senza impazzire?” […] Appare improbabile che uno possa mai vedere se stresso com'è nei termini di Metzinger. Vedrebbe l'orrore, allora, e saprebbe di saperlo: gli sarebbe impossibile credere che non è nient'altro che una marionetta umana. E adesso? Risposta: adesso diventi pazzo» (p. 98).
"Sugar Hill" (1974), regia di Paul Maslansky
Diventi come Alan Halsey. «Non è impazzito. È morto.», confessa Daniel Cain ad una Megan in lacrime riguardo a suo padre. Solo che il preside è, al contrario, ritenuto pazzo e non (senza il trattino) morto. Questo già citato duplice paradosso trova la sua ragione d'essere nel fatto che egli, come tutti gli altri rianimati, sia dunque entrambe le cose, visto che morendo ha svelato il (non) senso ultimo dell'esistenza e la meccanicità della vita umana e, sebbene meno dei suoi compagni ma non con conseguenze più gratificanti (lo vedremo poi), si è liberato del fardello costituito da ciò che nel suo cervello costituiva la fragile dimora delle emozioni, e visto che «le emozioni sono il sostrato dell'illusione di essere qualcuno» (p. 102); per non parlare delle capacità cognitive ormai irrecuperabili nella loro esagerata complessità e che per forza di cose sottenderebbero una teoria che dichiaratamente si rifà a quella del del neurofisico tedesco Metzinger  «secondo la quale il cervello fabbricherebbe il senso soggettivo dell'esistenza sotto forma di tanti “io” distinti» (pp. 93 - 94). Quello che resterebbe dopo la rianimazione sarebbero davvero soltanto quelle movenze spasmodiche ed quegli atteggiamenti meccanici propri delle marionette, irragionevoli persino nelle brevi e fortuite sortite della memoria nel cervello (o in quel che ne resta), e che, come nei veri epilettici e malati di mente, sono capaci di incutere nel sano un perturbante «sospetto che processi automatici, meccanici possano celarsi dietro l'immagine consueta dell'animazione» (S. Freud, Il perturbante, in Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, cit., p. 277): «la manifestazione di forze che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente il moto in angoli remoti della propria personalità» (Ivi, p. 296), una verità delle cose e di noi stessi che inconsciamente ignoriamo e che, di conseguenza, una volta risorta dalla sua soppressione ad opera del nostro (finto) Io ci “perturba”.
Per concludere, gli esperimenti di Herbert West nel loro smascherare i reali processi chimici e fisici che sottendono la vita umana (e come potrebbe essere altrimenti se il loro scopo è proprio di infonderla nei morti) non possono che essere destinati a fallire, perché nel loro mondo grottescamente parascientifico non esiste alcun senso, alcun’anima, alcun io e alcuna vita dopo la morte, ma solo un impulsivo “fingere di essere vivi”, proprio come diceva un personaggio ne La terra dei morti viventi degli zombi (o di sé stesso, proprio lui che non diventerà uno di loro scegliendo di uccidersi prima: cenere alla cenere, in un modo o nell'altro); e se, come notava ancora una volta lo stesso Freud, nella propria opera un'artista può infondere «tutte le condizioni che nell'esperienza reale sono all'origine del perturbante» (S. Freud, Il perturbante, in Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, cit., p. 305), ne consegue che tanto maggiore sarà la verosimiglianza degli eventi fittizi, ma soprattutto del modo in cui in essi la realtà viene (o verrebbe) sovvertita dal sovrannaturale, tanto più perturbante dovrà essere l'effetto finale. Perché quella che Herbert West (lo dice lui stesso) infonde nei morti «non è una parvenza di vita: è vita!». E, stando alle istruzioni di Ligotti, viene da sé che un così perturbante denudamento della nostra natura quali mortalmente fragili esseri umani dovrebbe essere quantomeno sufficiente a rendere Re-animator un altissimo esempio di messa in scena concettuale dell'orrore sovrannaturale.
Noi non potremmo essere più d'accordo. 



Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.

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