ATTENZIONE: Questo articolo è il quarto della serie ed il secondo del capitolo dedicato alla rinascita di Alan Halsey, consigliamo la lettura dei precedenti paragrafi (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.
Del resto gli zombi sono e siamo noi. Nella sequenza iniziale di Zombi ciò era esplicitamente manifesto quando Gaylen Ross asseriva che «stiamo perdendo con noi stessi», ovvero che la colpa dell'apocalisse imminente dovuta al proliferare dei non-morti è da imputarsi esclusivamente agli esseri umani, che non solo offrono la materia prima perché nascano (e quindi sono essi stessi) gli zombi, ma non fanno che uccidersi a vicenda creandone di nuovi undead (molto più cooperativi di loro). Ma questo concetto è più insidiosamente, e con una forza pessimistica molto più distruttiva, incarnato proprio dai rianimati di Herbert West e dalla loro natura, fondamentalmente, di meri esseri umani, solo privati della ragione, della coscienza, dell'identità. Ma poi esistono veramente istanze del genere, prerogative della nostra specie che ci rendono uomini e non zombi, persone e non bestie, individui e non animali, o per caso siamo sempre stati tali fin da quando abbiamo iniziato a vivere e a pensare l'illusione che ci nasconde tutto questo?
Capitolo Secondo, Paragrafo Secondo
Persone, marionette, zombies
Del resto gli zombi sono e siamo noi. Nella sequenza iniziale di Zombi ciò era esplicitamente manifesto quando Gaylen Ross asseriva che «stiamo perdendo con noi stessi», ovvero che la colpa dell'apocalisse imminente dovuta al proliferare dei non-morti è da imputarsi esclusivamente agli esseri umani, che non solo offrono la materia prima perché nascano (e quindi sono essi stessi) gli zombi, ma non fanno che uccidersi a vicenda creandone di nuovi undead (molto più cooperativi di loro). Ma questo concetto è più insidiosamente, e con una forza pessimistica molto più distruttiva, incarnato proprio dai rianimati di Herbert West e dalla loro natura, fondamentalmente, di meri esseri umani, solo privati della ragione, della coscienza, dell'identità. Ma poi esistono veramente istanze del genere, prerogative della nostra specie che ci rendono uomini e non zombi, persone e non bestie, individui e non animali, o per caso siamo sempre stati tali fin da quando abbiamo iniziato a vivere e a pensare l'illusione che ci nasconde tutto questo?
In
realtà, rispetto ai tempi in cui la Shelley concepì la prima e molto poco
verosimile rianimazione di un essere umano, le nostre conoscenze in merito a
ciò che nel cervello venga a costituire la personalità e la coscienza
individuali di ciascuno di noi esseri pensanti sono progredite al punto da
permetterci rispondere più chiaramente. Jay Goodwin e David Lynn ne parlano a
lungo proprio in un saggio che fa riferimento al capolavoro gotico da cui
abbiamo iniziato il nostro discorso:
«Sappiamo
che la materia organica necessita di molteplici processi elettrici, dagli
elettroni trasportati durante la respirazione e durante i processi chimici che
traggono energia dagli zuccheri, fino alle differenze di voltaggio tra le
membrane cellulari che trasmettono segnali attraverso i nostri percorsi
neurali, fino al cervello stesso ponendo così le basi e le fondamenta della
coscienza. […] La moderna scienza cognitiva e le neuroscienze computazionali
suggeriscono che le strutture psicologiche e le dinamiche biochimiche del
cervello, l'enorme e complessa rete di connessioni sinaptiche tra i neuroni,
rappresentino una mappatura della coscienza emergente e della memoria crescente
di una particolare persona. […] La storia di Frankenstein suggerisce che la
mente e la personalità della Creatura siano dovute principalmente a come essa
viene nutrita, a come il suo creatore e gli altri vi interagiscono e
rispondono, e pochissimo, se non per nulla, alla sua composizione intrinseca»
(J. Goodwin – D. Lynn, What would Mary Shelley say today?, in S.
Perkowitz – E. von Mueller (ed.) Frankenstein: How a Monster Became an Icon, cit., p. 208).
E
benché questo sintetico ma chiaro quadro scientifico sia perfettamente in
sintonia con la convinzione, già letteraria, di West sul fatto «che la vita non
sia altro che un processo chimico e fisico e che la cosiddetta “anima” sia un
mito» (H.P. Lovecraft, Herbert West, rianimatore, in Tutti i racconti 1897 – 1922, G. Lippi (a cura di), cit., p. 244), i due studiosi hanno
invece preso in considerazione, pur guardandovi con scetticismo scientifico,
l'idea che la mente umana costituisca una tabula rasa e che, fosse
possibile riportarla indietro dalla morte, potrebbe sottoporsi proprio a quella
“rinascita” romeriana di cui si era parlato, che nell'infelice Mostro di
Frankenstein avrebbe solo avuto un esito sfortunatamente negativo.
Eppure
gli zombi di Re-animator non godono neppure di questa possibilità ed è
ancora una volta l'originale racconto lovecraftiano a espletarne il motivo: ciò
avviene «perché nell'intervallo seguito alla morte potevano essersi deteriorate
alcune delle più delicate cellule celebrali» (Ivi, p. 247), da qui l'ossessione
di West di procurarsi cadaveri freschissimi anche a costo di uccidere.
Tuttavia, come già accennato, solamente in una occasione, sia nel racconto di
Lovecraft che nel film di Gordon, West riuscirà a ripristinare le capacità
cognitive di uno dei propri esemplari, mentre tutte le altre rianimazioni,
anche a prescindere dalla freschezza dei soggetti, dovranno arrendersi
all'incontrovertibile dato di fatto per cui «le moderne scienze biochimiche e
mediche hanno dimostrato che la vitalità degli organismi deceduti e di parti
del corpo trapiantate sono particolarmente sensibili al trascorrere del tempo;
una battaglia contro la putrefazione favorita dalla crescente entropia e dai
disordini molecolari» (J. Goodwin – D. Lynn, Ibidem), che non durerebbe neppure
quel margine da sei a dodici minuti che il professor Hill ritiene preludano la
morte cerebrale, figuriamoci tutto il tempo trascorso prima che l'influenza di
una cometa faccia risorgere i morti o che il dottor Frankenstein si decida ad
esumare cadaveri per comporre la sua creazione: non è un caso che, nell'omonima
pellicola, la morte proprio della “Moglie del rianimatore”, creata nella
maniera più tradizionale mettendo insieme diverse parti del corpo provenienti
da donne differenti, si risolverà in uno splatter e grottesco (commenta
sempre laconicamente Herbert West) «rigetto di tessuti».
Alle
più moderne nozioni scientifiche, inoltre, fa riferimento proprio quell'impulso
elettrico che dovrebbe costituire la matrice della coscienza, battezzato da
West in Beyond Re-animator come “nanoplasma”, ed il suo imporsi, seppur
con una certa ambiguità dichiaratamente voluta dal regista, sulle superstizioni
riguardanti l'anima del medico carcerario e nuovo cadetto del mad doctor lovecraftiano.
Ma, ancora una volta, invece di sconfiggere la morte gli esperimenti del
rianimatore ne confermeranno paradossalmente l'insormontabilità, visto che il
nanoplasma può essere restituito ad un trapassato solo “rubandolo” da un essere
vivente dalla simile struttura celebrale (umano o ratto, e quest'ultima
alternativa porta risultati che si lasciano tranquillamente immaginare),
uccidendolo; cosicché, invece di dare risposte, gli ennesimi esperimenti mirati
a comprendere il funzionamento di questo processo e i conseguenti zombi
governati da una personalità che non appartiene loro (ancora una volta qualcosa
di duplice e grottesco), non fanno che portare a nuove domande sulla nostra
natura di creature pensanti e individuali: «cos'è che ci rende oggi la stessa
persona di ieri, di un anno o dieci anni fa?» (J C. Derksen – D.H. Hick, Your
Zombie and You: Identity, Emotions and Undead, in C. M. Moreman – C. J.
Rushton (ed.) Zombies are Us. Essays on the Humanity of the Walking Dead,
McFarland, Jefferson 2011, p. 17).
Provano
a darsi una risposta, proprio come noi affidandosi alla moderna figura degli
zombi nelle loro congetture, Craig Derksen e Darren Hudson Hick:
«molti
respingono l'idea che avere il medesimo corpo senziente in momenti differenti –
che sia vivo o morto-vivente – sia sufficiente (o addirittura necessario) per
essere la stessa persona, ed i filosofi tendono più comunemente ad aderire a
concetti di continuità psicologica dell'identità personale. […] Secondo [John]
Locke, sei la stessa persona che eri una settimana fa perché partecipi al
medesimo flusso di coscienza. In particolare mantieni una catena ininterrotta
di memorie con quell'individuo.» (Ivi, p. 18)
E
per spiegarsi come mai, a discapito di questa visione, gli zombi (soggetto
tranquillamente rimpiazzabile da una persona mentalmente instabile, sia per
uscire dall'ambito della fiction che per fare un nuovo parallelismo con
la condizione di Alan Halsey) «non sono perciò individui, pure se assomigliano
a individui» (R. Ronchi, Zombie Outbreak. La filosofia e i morti viventi,
cit., p. 29), come mai siano e non siano la stessa persona che erano da vivi
non meno di quanto siano e non siano vivi allo stesso tempo, sempre Derksen e
Hick ricordano come
«[Derek]
Parfit respinge totalmente il concetto di “identità personale” e parla invece
di “persistenza”. […] Per esempio, mentre in un senso siamo la stessa persona
che eravamo a tre anni di età, in un altro siamo una persona completamente
diversa: non abbiamo gli stessi ricordi, probabilmente una personalità
totalmente diversa, e neanche una cellula di allora nel nostro corpo. La
visione di Parfit suggerisce di usare una logica meno rigida per parlare di
identità personale. Invece, direbbe, il bambino che eri persiste – perlomeno in
una misura degna di nota. […] In breve, se sperimenti la convinzione di
ricordare qualcosa che è avvenuto a qualcuno, e questa convinzione si basa su
un'esperienza nella corretta logica consequenziale, allora essa è una
leggittima memoria-q, anche se, letteralmente parlando, la persona a cui è
capitata l'esperienza non eri tu [ma il bambino]. Se, per qualche motivo, la
zombificazione permettesse alle memorie-q di travalicare la barriera della
morte, allora nel tuo zombi persisterebbe una memoria-q della tua esperienza?
Parfit suggerisce che la persistenza avviene per gradi: maggiore è il numero
delle connessioni-q (tra cui memorie-q, desideri-q, intenzioni-q ecc.) maggiore
sarà la persistenza» (P. 19).
Questo non rende certo più vicina e rassicurante la figura del rianimato, e il suo
basso grado di persistenza assottiglia in maniera sempre più disturbante la
linea di confine che separa noi e lui; inoltre, accelera l'inesorabile discesa
verso l'abisso a cui ci spingono queste conclusioni il pensiero di un altro e
ancora più nichilista oppositore del concetto di “identità personale”, il già
citato Thomas Ligotti, per cui «[l]a qualità più perturbante dell'io è che
nessuno è mai stato in grado di portare la minima prova a favore della sua
esistenza» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, cit., p.
91), proprio come l'anima, e che, in quella che pare quasi una postilla
orrorifica al pensiero di Parfit, afferma che
«gli psicologi cognitivisti, i filosofi della
mente e i neuroscienziati che estendono le teorie sull'inesistenza dell'io come
lo abbiamo sempre creduto non dicono che l'io non esiste; diffondono soltanto
complesse io-costruzioni che risparmiano all'io qualunque dubbio sulla sua
esistenza. E se qualcuno cerca di dimostrare che dietro i nostri occhi non c'è
un io che guarda il mondo lo ascoltiamo come se stesse dicendo che siamo stati
invasi dagli ultracorpi o che ci siamo fusi nella Cosa» (Ivi, p. 92).
Questo
accenno a due capolavori del genere sci-fi horror (non dimentichiamo che
Frankenstein viene considerato da Brian Aldiss il primo racconto di
fantascienza) non è affatto casuale visto che per Ligotti la massima
espressione di orrore sovrannaturale, forma d'arte che concepisce
l'inconcepibile in una sequela di paradossi perturbanti come gli stessi morti
viventi, è la famigerata «marionetta che si libera dai suoi fili e si muove
da sola» (p. 16) proprio perché compendierebbe in tal modo la condizione
ugualmente perturbante dell'essere umano, la cui coscienza oltremodo sviluppata
e contronatura gli rende impossibile vedere chiaramente la sua reale condizione
esistenziale:
«Ma
può il volgare materalista dirsi consapevole che il suo non essere nessuno sia un
fatto e però continuare a fingere di essere qualcuno? Non sarebbe un'altra
versione della domanda di [Thomas] Metzinger: “Ma si può davvero credere nel
determinismo senza impazzire?” […] Appare improbabile che uno possa mai vedere
se stresso com'è nei termini di Metzinger. Vedrebbe l'orrore, allora, e
saprebbe di saperlo: gli sarebbe impossibile credere che non è nient'altro che
una marionetta umana. E adesso? Risposta: adesso diventi pazzo» (p. 98).
Diventi
come Alan Halsey. «Non è impazzito. È morto.», confessa Daniel Cain ad una
Megan in lacrime riguardo a suo padre. Solo che il preside è, al contrario,
ritenuto pazzo e non (senza il trattino) morto. Questo già citato duplice
paradosso trova la sua ragione d'essere nel fatto che egli, come tutti gli
altri rianimati, sia dunque entrambe le cose, visto che morendo ha svelato il
(non) senso ultimo dell'esistenza e la meccanicità della vita umana e, sebbene
meno dei suoi compagni ma non con conseguenze più gratificanti (lo vedremo
poi), si è liberato del fardello costituito da ciò che nel suo cervello
costituiva la fragile dimora delle emozioni, e visto che «le emozioni sono il
sostrato dell'illusione di essere qualcuno» (p. 102); per non parlare delle
capacità cognitive ormai irrecuperabili nella loro esagerata complessità e che
per forza di cose sottenderebbero una teoria che dichiaratamente si rifà a
quella del del neurofisico tedesco Metzinger
«secondo la quale il cervello fabbricherebbe il senso soggettivo
dell'esistenza sotto forma di tanti “io” distinti» (pp. 93 - 94). Quello che
resterebbe dopo la rianimazione sarebbero davvero soltanto quelle movenze
spasmodiche ed quegli atteggiamenti meccanici propri delle marionette,
irragionevoli persino nelle brevi e fortuite sortite della memoria nel cervello
(o in quel che ne resta), e che, come nei veri epilettici e malati di mente,
sono capaci di incutere nel sano un perturbante «sospetto che processi
automatici, meccanici possano celarsi dietro l'immagine consueta
dell'animazione» (S. Freud, Il perturbante, in Saggi sull'arte, la
letteratura e il linguaggio, cit., p. 277): «la manifestazione di forze che
non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di
percepire oscuramente il moto in angoli remoti della propria personalità» (Ivi,
p. 296), una verità delle cose e di noi stessi che inconsciamente ignoriamo e
che, di conseguenza, una volta risorta dalla sua soppressione ad opera del
nostro (finto) Io ci “perturba”.
Per
concludere, gli esperimenti di Herbert West nel loro smascherare i reali
processi chimici e fisici che sottendono la vita umana (e come potrebbe essere
altrimenti se il loro scopo è proprio di infonderla nei morti) non possono che
essere destinati a fallire, perché nel loro mondo grottescamente
parascientifico non esiste alcun senso, alcun’anima, alcun io e alcuna vita
dopo la morte, ma solo un impulsivo “fingere di essere vivi”, proprio come
diceva un personaggio ne La terra dei morti viventi degli zombi (o di sé
stesso, proprio lui che non diventerà uno di loro scegliendo di uccidersi
prima: cenere alla cenere, in un modo o nell'altro); e se, come notava ancora
una volta lo stesso Freud, nella propria opera un'artista può infondere «tutte
le condizioni che nell'esperienza reale sono all'origine del perturbante» (S.
Freud, Il perturbante, in Saggi sull'arte, la letteratura e il
linguaggio, cit., p. 305), ne consegue che tanto maggiore sarà la verosimiglianza
degli eventi fittizi, ma soprattutto del modo in cui in essi la realtà viene (o
verrebbe) sovvertita dal sovrannaturale, tanto più perturbante dovrà essere
l'effetto finale. Perché quella che Herbert West (lo dice lui stesso) infonde
nei morti «non è una parvenza di vita: è vita!». E, stando alle istruzioni di
Ligotti, viene da sé che un così perturbante denudamento della nostra natura
quali mortalmente fragili esseri umani dovrebbe essere quantomeno sufficiente a
rendere Re-animator un altissimo esempio di messa in scena concettuale
dell'orrore sovrannaturale.
Noi
non potremmo essere più d'accordo.
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.
Nessun commento:
Posta un commento