ATTENZIONE: Questo articolo è il primo della serie ed il primo del capitolo dedicato alla sanguinosa resurrezione di Hans Gruber, consigliamo la lettura dei successivi paragrafi (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo.
Svizzera anni '80. Istituto di Medicina dell'Università di Zurigo. Urla strazianti e inumane provenienti da una stanza chiusa rimbombano nei corridoi. Accorrono due agenti delle forze dell'ordine, guidati da un professore. Un'infermiera li sta aspettando impaziente davanti alla porta. Dopo reiterati e vani tentativi di comunicare con l'interno, i quattro si introducono con la forza nella stanza.
Ai loro piedi, il dottor Hans Gruber agonizza preda di spaventose convulsioni, finchè gli occhi letteralmente gli esplodono nelle orbite in fiotti di sangue e l'uomo cade al suolo privo di vita. Solo altro occupante della stanza, un giovanotto con gli occhiali, magro e sudato, si difende dall'accusa di omicidio ai danni dell'anziano professore ribattendo, in un primissimo piano e con lo sguardo, seppur rivolto verso la macchina da presa, allucinato a tal punto da impedirgli di sfondare effettivamente la quarta parete: «No, io non l'ho ucciso. Io gli ho dato la vita!»
Capitolo Primo, Paragrafo Primo
Creazione, Rianimazione, Grottesco
Ai loro piedi, il dottor Hans Gruber agonizza preda di spaventose convulsioni, finchè gli occhi letteralmente gli esplodono nelle orbite in fiotti di sangue e l'uomo cade al suolo privo di vita. Solo altro occupante della stanza, un giovanotto con gli occhiali, magro e sudato, si difende dall'accusa di omicidio ai danni dell'anziano professore ribattendo, in un primissimo piano e con lo sguardo, seppur rivolto verso la macchina da presa, allucinato a tal punto da impedirgli di sfondare effettivamente la quarta parete: «No, io non l'ho ucciso. Io gli ho dato la vita!»
Se l'ambientazione svizzera memore del Frankenstein (1818; Frankenstein, or the Modern Prometheus) scritto da Mary Wolstonecraft Shelley e l'esclamazione debitrice della ben più nota «Lui è vivo. È vivo!» pronunciata da Colin Clive non bastassero a convincere che, con questo prologo, girato solamente a pellicola conclusa, Re-animator (1985; Id) di Stuart Gordon si dimostri fin da subito un'opera più che degna dell'attributo “postmoderno” - se, duinque, non dovesse bastare, come nota anche Rick Worland, tale coraggioso recupero del classico mito di Frankenstein nel panorama horror americano dei primi anni '80 totalmente monopolizzato dagli slashers, non c'è che da aspettare i titoli di testa immediatamente successivi alla sequenza di apertura. Essi infatti
«immergono il film in una dimensione autoconsapevole mentre un nuovo ma inconfondibile arrangiamento dell'incalzante sinfonia di apertura di Psyco composta da Bernard Herrmann viene riprodotta su una serie di incisioni anatomiche dalle vivide tonalità blu, gialle e violacee, che scorrono e si dissolvono ricordando gli inquietantemente astratti titoli di testa di La donna che visse due volte»
(R. Worland, The Horror Film: An Introduction, cit., p. 247)
e lo stesso compositore Richard Band ammette il proprio debito nel voler riproporre «in a campy way» (“con un tono deliberatamente umoristico”) una quintessenziale score del genere, non riuscendo pur con tutta la sua trasparenza e originalità nella reinterpretazione del suddetto soundtrack (che vedremi meglio in seguito) a sfuggire un numero di critiche, che costituiscono solo le prime dell'innumerevole collezione che può vantare questa pellicola, e di perplessità inspiegabilmente maggiori rispetto quelle che potrebbero ugualmente essere attribuite a, per fare solo un nome tra tanti, Pino Donaggio per Carrie – Lo sguardo di satana (1976; Carrie).
Ma l'inesauribile capacità di Re-animator di stravolgere la tradizione rimanendovi rispettosamente fedele non si ferma a questi primi e pochi elementi formali. Tuttavia, per comprenderne la natura sovversiva eppure sapientemente coerente con i propri progenitori cinematografici e letterari del film è opportuno partire proprio da questi ultimi e domandarsi se Herbert West - questo è il nome del giovane studente in medicina che ha tentato con i disastrosi risultati sopracitati di riportare in vita il proprio mentore - sia effettivamente un epigono di Victor Frankenstein e se segua davvero le stesse orme di quel mad doctor nato, quasi come la propria creatura, una notte di tregenda del 1816 nella villa sul Lago Geneva in Svizzera, dove Lord Byron e il suo medico John Polidori (che avrebbe scritto il primo racconto di vampiri) insieme a Percy Bysshe Shelley ed alla Mary Godwin che sarebbe diventata sua moglie si sfidarono a scrivere una storia dell'orrore ciascuno, in una vicenda perennemente in bilico tra realtà e finzione recentemente rimessa in scena nel Mary Shelley – Un amore immortale (2017; Mary Shelley), dopo le reinterpretazioni che aveva già subito in Gothic (1986, Id) e nel prologo di un certo sequel di un grande classico, e classico esso stesso, di cui parleremo nel prossimo articolo della serie.
In realtà, non vi è una discendenza così diretta quanto ci si potrebbe aspettare da due personaggi apparentemente così simili, si tenesse anche solo conto del loro primevo concepimento: quello così perfettamente calato nell'ambiente gotico e romantico del primo Ottocento per Frankenstein, e quello totalmente estraneo alla prosa seria e calcolata degli orrori solamente accennati, a cui di solito tendeva l'autore Howard Phillips Lovecraft, per Herbert West – Rianimatore (1922; Herbert West – Reanimator), che lo scrittore di Providence pubblicò su di una rivista umoristica ed esclusivamente per motivi economici, scrivendo la storia più irriverente che potesse concepire in risposta alla raccomandazione dell'editore di «non essere troppo macabro» (S.T. Joshi, A Dreamer and a Visionary: H.P. Lovecraft in His Time, Liverpool University Press, Liverpool, 2001, p. 151).
Neanche a dirlo, Lovecraft per i suddetti motivi disprezzava profondamente questo suo racconto, ritenendolo artificioso e inartistico, così come avrebbe certamente disprezzato la pellicola che Gordon ne ha tratto; e tale è il risaputon pensiero di moltissima critica, che, come Gavin Baddeley, si chiede costantemente «cosa il vecchio H.P. penserebbe di questo esuberante cattivo gusto» (G. Baddeley, Gothic. La culture des ténèbres, Denoel Extréme, Parigi 2004, p. 15). Ma chi scrive si permetterà di provare a dimostrare (ma solo a discorso concluso) come già gli orrori narrati nel racconto fossero solo una meno riuscita variazione che tuttavia nulla perdeva delle inconfondibili fondamenta del cosmicismo lovecraftiano, e come l'esasperazione sovversiva apportata al black humor e alla violenza esplicita del racconto di Lovecraft da Re-animator non faccia altro che amplificare la forza di questa visione meccanicista e, semplificando, pessimista dell'esistenza.
Parlando del Frankenstein di Mary Shelley (ma pure delle sue trasposizioni cinematografiche, a riprova di come in questo discorso i due media siano inestricabilmente interconnessi, tornando al tema già trattato nella trilogia dell'Invisibile), Roberto Curti sottolinea come «per la Shelley, la “rianimazione” corrisponde[sse] veramente alla “creazione dell'anima”» (R. Curti, Demoni e dei. Dio, il diavolo, la religione nel cinema horror americano, Lindau, Torino 2009, p. 35), mentre quando si occupa di Lovecraft scrive che «la loro [delle entità lovecraftiane] esistenza annulla alla base la teodicea e la speranza di un aldilà» e quindi dell'anima: le rianimazioni di Herbert West somigliano, per usare sempre una clazante definizione del critico, più che a quelle di Frankenstein alle “poesche” «resurrezioni che caratterizzano i climax de I vivi e i morti, Il pozzo e il pendolo, Sepolto vivo, La tomba di Ligeia [perchè] non sono miracoli […] per la semplice ragione che un Aldilà non c'è». Non è un caso che Lovecraft dovesse parte del suo approccio razionalizzante alla letteratura dell'irrazionale proprio ad Edgar Allan Poe e che Herbert West, invece di affermare come Clive «ora so cosa vuol dire essere Dio!», dopo aver riportato in vita “con successo” il suo primo esemplare, un gatto decisamente poco divino (scena assente, seppure suggerita, nel racconto), asserisca molto semplicemente e con distacco scientifico che «la vita è formata da un insieme di processi chimici e fisici, giusto? Viene immediato pensare allora che se uno si trova in condizioni estremamente favorevoli e riesce a ricaricare questi processi chimici... ecco, abbiamo la rianimazione».
Dunque, come pure sostiene il più grande studioso lovecraftiano vivente Sunand T. Joshi nel noto documentario Lovecraft: Fear of the Unknown [2008; Lovecraft: paura dell'ignoto], vi è una sostanziale differenza tra l'operato di Victor Frankenstein e quello di Herbert West - che si dipani su carta o su pellicola - dettato principalmente dalle epoche e dalle mentalità degli scrittori che li inventarono: il primo sintetizza l'antica hybris prometeica, «l'arroganza dell'uomo che si vede al centro dell'universo e in grado di usurpare il ruolo di demiurgo» (P. Hardy, The Aurum Film Encyclopedia – Horror, Aurum Press, London 1993, p. 48); il secondo denuda semplicemente quella stessa meccanicità dell'esistenza e del cosmo che Lovecraft sosteneva nei saggi che compongono In Difesa di Dagon (1925 – 27; In Defence of Dagon), e che erano alla base dei suoi racconti dell'orrore; West non “crea” anime tormentate e infelici, ma semplicemente “rianima” cadaveri, nessuno dei quali ha mai la decenza di essere abbastanza freschi e, quindi, di mantenere intatta la propria cognitività.
In Re-animator neanche la freschezza dell'esemplare pare essere sufficiente, non importa quanto poco lividi appaiano i cadaveri a coagulazione del sangue non inoltrata al punto da richiedere il realistico lavoro di make-up eseguito dal truccatore John Carl Buechler, e frutto di piacevoli ricerche negli obitori di Chicago e Los Angeles simili agli studi di chirurgia condotti dal leggendario Jack Pierce proprio per l'ideazione dell'iconica testa piatta di Boris Karloff: i morti viventi di Re-animator sono sempre irrazionalmente aggressivi e omicidi, ma del perchè questi morti non tornino mai in vita in possesso «di una sensibilità emotiva e di un'intelligenza razionale», come afferma Curti nel suo saggio precedentemente citato, seppur distruttiva come quella del mostro di Frankenstein, discuteremo meglio nel seguente capitolo. Per adesso, ci interessano le prime sfumature di vero e proprio grottesco (citando l'enciclopedia Treccani: «tutto ciò che, per essere goffo, paradossale, innaturale, muove il riso pur senza rallegrare», un aggettivo caro tanto a Lovecraft quanto a Poe) e del black humor che ne consegue, che incominciamo ad intravedere in tutta questa faccenda, e come i due costituiscano il primo vero e fondamentale punto di incontro tra West e il suo trisavolo svizzero: niente ci pare più grottesco della reiterata e testarda attitudine ad ignorare gli errori commessi, che siano la fallimentare rianimazione del dottor Gruber dovuta ad un “dosaggio eccessivo” (pure assente nella storia originale), o il distruggere la compagna che il Mostro aveva preteso ignorando le minacce da lui già portate a compimento (solo nel romanzo della Shelley e senza contare ogni altra sorta di stupidaggine che le svariate saghe cinematografiche hanno dato la possibilità al dottor Frankenstein di commettere).
Lo stesso concetto di morto resuscitato ha in sé qualcosa di intrinsecamente grottesco, come deve pensare anche lo scrittore e filosofo Thomas Ligotti, visto che, come si evince pure dal titolo della sua raccolta di novelle Teatro grottesco (1997; Id), il paradosso, tanto nella vita quanto nella fiction, ha tanto un elemento di perturbante che di grottesco, e che «favoleggiati come campioni di un paradosso vivente, sono i “morti viventi”, cadaveri che camminano avidi di un'eterna presenza sulla terra» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, Saggiatore, Milano 2016, p. 15).
A chi ancora non fosse convinto basterebbe, infine, pensare agli studi di Luigi Galvani sugli effetti dell'elettricità applicata al sistema muscolare, che isprarono proprio la Shelley, e alla loro baracconesca e macabra eredità, che parebbe quasi uscita da La danza dei morti (2005; The Dance of the Dead) di Tobe Hooper e che così viene raccontata da Dwayne Godwin e Jorge Cham (i due accompagnano addirittura con una vignetta il loro saggio):
«il nipote di Galvani, Giovanni Aldini, portò le scoperte dello zio ad un nuovo e ripugnante livello. Girando l'Europa dimostrò la capacità di movimento postmorte dei corpi di criminali appena giustiziati quando percorsi dell'elettricità. Questi spettacoli raggiunsero il loro apice nel 1803 quando Aldini elettrificò il corpo di George Foster, un assassino appena giustiziato. Coloro che assistettero alla dimostrazione sottolinearono come sembrasse quasi che il cadavere fosse tornato in vita».
Questa vena grottesca che sembra percorrere l'intero corpo dei morti resuscitati (e non solo da un mad doctor) era stata perfettamente compresa già dallo stesso James Whale che, benchè l'avrebbe portata alle estreme conseguenze solo con il sequel, già mostrava nel suo Frankenstein (1931; Id) una terribile e macabra ironia nell'incapacità del Mostro di dimostrare la propria bontà d'animo quando, nel tentativo di giocare con una bambina la uccide lanciandola di peso in acqua come il petalo di un fiore (eloquentemente questa scena è presente solo nella versione cinematografica dell'opera).
Dunque, la comicità, seppur solo accennata, della prima metà di Re-animator, come quella presente nella freddezza sardonica con cui West ribatte al proprietario del gatto morto, che parrebbe aver ucciso lui stesso al solo fine di condurvi l'esperimento, quando gli viene detto che avrebbe potuto trovare un modo per riferire il presunto incidente («Cosa avrei scritto sul biglietto? “Gatto morto, i dettagli più tardi.”?») o la battutina sadica con cui commenta la rianimazione dello stesso gatto, incapace di muoversi a causa della colonna vertebrale spezzata, («Birth is always painful», ovvero “la nascita comporta sempre un po' di dolore”) non sono poi così fuori luogo.
Ma in che modo questo fantomatico gatto è stato riportato in vita? Si è parlato degli effetti del lavoro di Frankenstein e West, ma non dei metodi. Si è anche parlato dell'influenza che il galvanismo ebbe sul Frankenstein di Mary Shelley, ma è il mad doctor lovecraftiano che continua ad essere quello con l'approccio più scientifico che metafisico: difatti, come ci ricorda pure Bruce F. Kawin, nel romanzo la metodologia della rianimazione della Creatura non è neppure descritta, mentre nel film di Whale l'elettricità, per la prima volta effettivamente connessa alla nascita del Mostro, si presenta comunque sotto forma di «una grande folgore che rimanda al “segreto della Creazione”» (B.F. Kawin, Horror and the horror film, Anthem Press, New York 2012, p. 55) e l'esperimento si compie sulla cima di una torre protesa verso il Cielo; niente a che vedere con l'aspetto molto più clinico e terreno della siringa con cui Herbert West inietta il proprio siero nei suoi esemplari, con i risultati che abbiamo appena iniziato a conoscere.
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva, adattato come articolo da Robb P. Lestinci
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