A chi dovesse giustamente notare la singolarità e problematicità del volersi impuntare su di un argomento tanto estraneo al fondamento espressivo della settima arte, ovvero l'immagine, come le impossibili scorribande di esseri “invisibili”, che un'immagine non hanno, nel nostro mondo vogliamo lasciar sapere che tutto ciò che è singolare e problematico lo troviamo decisamente più degno dalla nostra (e vostra) attenzione di ogni altra cosa. Tuttavia, così finendo per rendere il tutto ancora più singolare e problematico di quanto già non fosse, dobbiamo mettere fin da subito in chiaro come l'opera audiovisiva che tratteremo non sarà cinematografica, ma televisiva, il risultato non sarà soddisfacente, ma molto al di sotto degli standard del suo artefice, e l'entità non sarà più invisibile, ma forse fin troppo palesata. Ma andiamo con ordine.
In principio fu lo scrittore irlandese Fritz-James O'Brien. Come ricorda Sua Maestà H. P. Lovecraft (che oggi compie 129 anni) nel suo saggio fondamentale “L'orrore sovrannaturale nella letteratura”, «[è] stato lui a darci “What Was It?”, la prima storia ben costruita di un essere tangibile ma invisibile» (chiarendo perlatro che con questo termine stiamo intendendo un vero e proprio stato concreto della materia fisica, e non quello etereo di improbabili emanazioni spiritiche). Il racconto, datato 1859, tirava in ballo la medesima speculazione sulla rifrazione della luce da cui prenderanno il via gli esperimenti di Jack Griffin, alias l'Uomo Invisibile, e, nonostante i clichè tipici del genere gotico (i personaggi a un certo punto discutono letteralmente di Hoffmann) e l'ineffabilità epistemologica dell'essere invisibile (la cui forma sgraziatamente umanoide rivelata da un calco non fa che infittire il mistero che rimarrà irrisolto alla sua morte per inedia), l'horror è stato ormai legato a doppio filo con la fantascienza.
Ciò non passò inosservato all'americano Ambrose Gwinnett Bierce che, col proprio stile scarno e giornalistico. ma efficacemente cinico e beffardo, si dilettava in entrambi, ambientando spesso le proprie novelle sovrannaturali negli Stati Uniti del sud, specialmente nei pressi della frontiera messicana oltre cui lui stesso scomparve nel 1914 (circostanza romanzata in “Dal tramonto all'alba 3” dove lo scrittore è interpretato nientedimeno che da Michael Parks), e che nel 1893 pubblicò “La cosa maledetta” (“The Damned Thing”): la storia tratta di una comicamente macabra inchiesta che si svolge in presenza del cadavere della vittima, un vero e proprio leitmotiv in Bierce (di recente pure ottimamente ripresentato dal “The Autopsy of Jane Doe” del regista André Øvredal da cui tutti attendiamo “Scary Stories to Tell in the Dark”), e che rivela le incursioni nel “chaparral” circostante di una fiera assassina e dal pigmento composto da «colori che integrano la composizione della luce, e che non siamo in grado di discernere» (nuova edizione Mondadori de “I miti di Cthulhu”); si fa brevemente riferimento ai raggi attinici, ovvero gli ultravioletti di "From Beyond ” , quale pseudoscientifica spiegazione del fenomeno e, sebbene l'argomentazione non sia altrettanto elaborata rispetto a quella del romanzo di Wells più di quanto non ne sia maggiormente plausibile, il timore esistenziale dinanzi a ciò che non potremmo mai conoscere trae ancora più efficacia dal cinismo sardonico dell'autore, che troviamo sempre un efficace e verosimile approccio emotivo all'orrore sovrannaturale, e dall'ambientazione rurale e prosaica, che vi si oppone evidenziandone il dis-ordine sovversivo. Insomma, un piccolo capolavoro del genere che anticipa proprio la rivoluzione “copernicana”, come la chiamava Fritz Leiber, apportatavi in seguito proprio dalo stesso Lovecraft.
Se avete ammirevolmente già letto il primo articolo di questa sorta di rubrica , probabilmente l'ambientazione rurale e il black humor del racconto di Bierce vi avranno ricordato l'incipit del film di Whale; ma prestate attenzione alla variabile “Stati Uniti del sud” all'equazione ed il risultato non potrà non essere l'associazione immediata con uno dei più grandi e compianti moderni maestri del genere: Tobe Hooper. Purtroppo per lui (e per noi), probabilmente il regista di Austin era già da considerarsi compianto all'epoca, correva l'anno 2006, in cui girò questo primo episodio della seconda stagione di “Masters of Horror” tratto proprio dal racconto di Bierce omonimo, anche se da noi il mediometraggio è reintitolato “Discordia”, dopo aver già con risultati mediocri, a voler essere teneri, tentato di sposare i topoi del proprio cinema con quelli lovecraftiani in “Il custode” (The Mortuary; 2005) , dove uno scialbo teen drama, solo a tratti salvato da sprazzi morenti dell'umorismo nero e scorci sporadici del degrado sociale tipici del regista fin da “Non aprite quella porta”, toglieva lo spazio al potenzialmente interessante rapporto che incorreva tra il fungo senziente che infestava la dimora in cui si trasferivano protagonisti e il ritardato deforme che lo aveva nutrito per generazioni: il primo viene incautamente mostrato nel finale, contro ogni logica di buona riuscita sia cinematografica che letteraria, in tutta la sua interezza con una pessima CGI, il secondo non rimane neanche abbastanza sullo schermo perchè si possa compatire la sua ingenua mancanza di cattiveria quale novello Leatherface.
Tornando a “Discordia”, la sceneggiatura di Richard Matheson elimina la cornice umoristica e processuale del racconto di Bierce, mantenendo solo l'idea di un proprietario terriero perseguitato dalla Cosa Maledetta e che nel prologo ucciderà la moglie e tenterà, prima di essere sventrato dall'essere invisibile, lo stesso exploit con il figlio adolescente: questi diventerà, ventiquattro anni dopo, il paranoico sceriffo della cittadina di Cloverdale (Tex.), interpretato da Sean Patrick Flanery (“L'insaziabile”, “Kaw”), ancora ossessionato dal brutale evento cui assistette anni addietro, finendo per trascurare (ma neanche troppo) la moglie e il figlio, riempiendo la tenuta del padre in cui egli stesso continua a vivere di telecamere di sorveglianza e pronto a recepire immediatamente i segni di follia incipiente che comincia ad insinuarsi tra gli abitanti del paese al ritorno della Cosa Maledetta. I problemi del mediometraggio sono, letteralmente, tutti contenuti in questa breve sinossi: dopo una passabile scena d'apertura iniziale, caratterizzata da un montaggio sincopato e frammentato che ricorda molto quello completamente eccessivo e lisergico dell'episodio che Hooper diresse per la prima stagione della serie ideata da Mick Garris ( “La danza dei morti” , scritto e anche tratto da Matheson), veniamo introdotti nella Cloverdale del presente, abitata, come ogni cittadina texana e hooperiana che si rispetti, da uno stuolo di personaggi secondari, che però non fanno in tempo a comporre in modo soddisfacente il quadro sonnolento di una disagiata comunità rurale, come invece accadeva in “Un motel vicino alla palude” (dove pure figurava un giovanissimo Englund pre-Krueger) e in “The Mangler”, che subito sono costretti a cedere il passo alle inconcludenti indagini dello sceriffo sul passato del luogo, per poi essere sommariamente dimenticati o uccisi: il vicesceriffo aspirante fumettista (Bernand Fletcher), il giornalista viscido e opportunista (Andrew Mcllroy), persino lo schizzatissimo prete interpretato da Ted Raimi insieme a pochi altri anonimi personaggi, sono più che altro meri riempitivi che dovranno solo prestarsi alla alquanto misera, visivamente e concettualmente, carneficina finale in cui si uccideranno l'un l'altro, e che, senza restituire assolutamente, nella loro invasiva e allo stesso tempo scarna frammentarietà, il senso di un'intera città in preda al delirio, risultando personaggi casuali e fini a sé stessi, troppo abbozzati per non essere degli insignificanti pretesti per un po' di gore, e al contempo troppo potenzialmente complessi per rappresentare i diversi tipi umani che dovrebbero venire indiscriminatamente travolti dalla calamità.
La prima metà del mediometraggio è letteralmente un'inutile presentazione di tutti questi personaggi, che si tolgono spazio a vicenda e da cui il protagonista emerge solo come il più futilmente sfaccettato di tutti; difatti, quando la follia dilaga (o dovrebbe star dilagando... non lo vediamo e non lo intuiamo più di tanto) a Cloverdale e la Cosa Maledetta sta per fare il suo “grande ritorno”, siamo già a finale inoltrato, senza che si sia venuto a creare anche solo l'ombra di un nesso, narrativo o subtestuale, tra il personaggio dello sceriffo e l'entità: la responsabile della situazione ai limiti del paranormale parebbe essere infatti l'intera cittadina, formata dai fuggitivi di un paesino vicino perito nella medesima maniera, e la causa sarebbe da ricondursi allo sfruttamento improprio fattovi nel campo dell'estrazione petrolifera. Potenzialmente interessante, questa sottotrama è ridotta ad una mera lettura da parte dello sceriffo di alcuni vecchi articoli di giornale, mancando ancora una volta di impressionare sullo schermo l'estensione e la forza dell'influenza di questa maledettissima (per davvero) cosa, né tantomeno viene così approfondito il legame specifico che avrebbe dovuto avere con lo sceriffo, se mai ce n'è stato uno: quando negli ultimi minuti il protagonista viene colto dalla stessa follia omicida del padre, ma non certo in maniera diversa dagli altri abitanti di Cloverdale, lo spettatore scompre paradossalmente di essersi fin troppo aspettato un risvolto di trama che non aveva motivo alcuno di aspettarsi, mentre le sottotrame avviate dagli altri personaggi si ritrovano mozzate alla loro morte sensa alcun senso narrativo e in favore del un focus su quello dello sceriffo che non ha alcuna centralità se non quella di essere nominalmente il protagonista.
Quando gli ultimi minuti la Cosa Maledetta finalmente appare, simile al Mostro di Catrame dei film di Scooby-Doo scritti da James Gunn e che ci auguriamo nessuno a parte noi ricordi, non è resa in un digitale certo migliore del mostro finale de “Il Custode”, eppure entrambe sono sulla carta due intelligentissime reinterpretazioni in chiave ecologica dei mostri amorfi e tentacolari di Lovecraft, a labile, ma fin troppo eloquente, testimonianza della forte impronta personale che due autori come Hooper o Matheson hanno dato sempre e comunque, anche se prendere coscienza di ciò non fa che rendere ancora più evidente quanto l'adattamento del racconto di Bierce sia una vera e propria occasione sprecata che neanche la messa in scena del regista di Austin, sempre perfettamente mirata a restituire l'orrore in strade battute dal sole e qui resa attraverso una fotografia itterica durante la notte e leggermente sovraesposta durante il giorno, riesce a recuperare. Inoltre, avevamo detto come fosse proprio l'invisibilità “concreta” della Cosa in Bierce a renderla un prototipo della tipica inconoscibile entità lovecraftiana, quindi l'elemento maggiormente interessante e innovativo della novella in Hooper cede il passo alla terribile CGI di un mostro melmoso, come composto di petrolio, che tradisce potremmo dire “ingiustificatamente” l'elliticità dell'opera originale, visto che non sostiene sufficientemente neanche la componente politica che vorrebbe aggiungere all'opera piegandosi ad un finale frettoloso (spoiler, se siete tra quelli che ci tengono) che, invece di apparire nichilista e distruttivo come vorrebbe, da solo un ennesimo senso di subitanea interruzione narrativa: la Cosa Maledetta divora lo sceriffo, il cui flusso di coscienza che ci aveva accompagnato per tutto il film deve probabilmente provenire dall'Oltretomba (...ok), in modo semplicemente ridicolo, poi i più attenti potranno forse decifrare nei movimenti epilettici compiuti dalla macchina da presa, che niente hanno dei contestualizzati frenetici movimenti di macchina, gli sdoppiamenti d'immagine e il montaggio sincopato de “La danza dei morti”, l'intenzione del regista di comunicare che la macchina in cui viaggiano il figlio e la moglie stia venendo attaccata dal mostro.
Fermo restando che, per quanto possiamo non apprezzare il mediometraggio di Hooper, troviamo alquanto pretestuosa la cecità che è stata riservata alla riconiscibile autorialità del suo cinema presente tanto in questo mediometraggio quanto in molte sue opere che, non assurte al rango di classici quali “Il tunnel dell'orrore” (da poco rilasciato dalla Midnight Factory) e “Poltergeist”, continuano ad essere ingiustamente denigrate, e così pure il trattamento riservato più in generale alle due stagioni di “Masters of Horror” tanto ricche di episodi sia mediocri che eccellenti quanto di più semplicemente ed onestamente validi. Tuttavia, sarebbe non del tutto corretto imputare alle ovvie ristrettezze della produzione televisiva la mancata riuscita dell'opera hooperiana, visto che nel 1975 era stato diretto un altro adattamento del racconto di Ambrose Bierce, certamente sconosciuto ai più così come lo era a chi scrive prima della stesura di quest'articolo nonostante informazioni sullo stesso possono trovarsi persino su Wikipedia: diretto all'epoca per la televisione iugoslava, e quindi in un regime che non fu certo clemente col genere che per eccellenza mette a nudo l'abiezione e la fragilità del genere umano, da Branko Plesa in un suggestivo bianco e nero, questo mediometraggio, solo di pochi minuti più lungo di quello di Hooper, si rivela non solo un fedelissimo adattamento narrativamente parlando (ritroviamo l'inchiesta in una cascina di campagna al cospetto di una giuria di contadini, i siparietti comici tra il testimone e scrittore amico della vittima con il coroner interpretato dal regista e persino citazioni di interi dialoghi o lo svolgersi della scena al lume di candela), ma pure un'incredibilmente acuta riproposizione delle tematiche e suggestioni principali e in seguito fondamentali per il genere del racconto: inquietantissimi piani sequenza e finte soggettive che percorrono il “chaparral”, stranianti ralenty degli uccelli che infestano la volta celeste e intelligentissime zoomate che sostituiscono brillantemente i chiaramente inaccessibili movimenti di macchina più complessi vengono costantemente accompagnati dal drammatico tema musicale di Stanko Terzik, che combinando il tutto in una potentissima e chiara visione dell'irreprensibile e indecifrabile schema della natura che ci circonda e di cui la Cosa Maledetta o “Prokletinja”, da cui il titolo dell'opera, è solo il maggiore esponente. Degni di nota sono pure diverse inquadrature tipiche del cinema di Sergio Leone (il dettaglio insistente della scarpa bucata del coroner pare essere, salvo un errore dovuto ad una nostra dimenticanza, uscito da un suo film) che si sposano alla perfezione con l'ambientazione da Guerra Civile dal film restituita alla perfezione attingendone il sapore da solo una delle opere in cui Bierce, che la visse in prima persona, lo infuse, ed il montaggio serrato che, dopo un film dalla narrazione e dal linguaggio lenti e riflessivi, accompagna la prima e ultima aggressione del mostro ai danni del protagonista ci pare il solo e unico mezzo con cui una talmente ineffabile situazione poteva essere resa in immagini con una simile efficacia. Il film, poi, si dilunga in filosofiche e scientifiche discussioni riguardanti l'inconoscibilità e la vera natura dell'universo, che abbiamo potuto apprezzare solo in parte a causa della totale irreperibilità dell'opera con sottotitoli diversi dagli spagnoli (qui invece trovate una versione di migliore qualità ma senza sottotitoli ).
Non dubitiamo che vedere un giorno un'edizione anche solo occidentale di quest'opera non sia più impossibile del vedere la Cosa Maledetta in persona. O restare vivi abbastanza a lungo per raccontarlo.
Se fate parte di quegli «amanti dell'orrido [che] frequentano spesso luoghi strani e solitari» (“L'immagine nella casa”, H. P. Lovecraft) forse sarete abbastanza incuranti di ciò per voler dare subito una migliore occhiata più da vicino ai racconti dell'orrore di Bierce recentemente ripubblicati (purtroppo come sempre parzialmente) da Theoria, mentre per una nuova ed ultima incursione nel regno dell'Invisibile, sull'impervio confine tra cinema e letteratura, vi consigliamo di continuare a frequentare il blog come fosse una catacomba di Tolemaide, un castello sul Reno, una città dell'Asia o una fattoria del New England. O, se preferite, come un innevato villaggio inglese, un'assolata cittadina texana o, meglio ancora, la casa sulla Senna di un giudice. Ci rivediamo lì.
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