Ognuno di noi ha subito, nel corso del suo passato, una o più esperienze negative che, col passare del tempo, sono maturate, si sono fossilizzate nel nostro inconscio, diventando quelli che comunemente chiamiamo “traumi ”, i quali spesso riaffiorano, provocandoci inquietudine, panico, o, nei casi più seri, gravi crisi depressive.
Ma da cosa vengono rievocati tali ricordi? Ovviamente dall'"incontro” casuale con un elemento comune fra il presente ed il brutto evento in questione, elemento che può essere un luogo particolare, un rumore, una canzone, la scena di un film, portandoci a rivivere mentalmente il trauma stesso.
E se tale incontro non fosse sempre “causale”? Se tali ricordi venissero fatti riaffiorare di proposito per farci vivere nuovamente quell'incubo che speravamo di esserci lasciati alle spalle per sempre, e di conseguenza portarci in un tunnel di pazzia senza via d'uscita?
É questa la riflessione che sta alla base de “Il profumo della signora in nero” del 1974, opera prima del regista Francesco Barilli, personaggio già noto nell'ambiente cinematografico italiano, con alle spalle importanti ruoli da attore, fra cui quello di protagonista in “Prima della rivoluzione” del maestro Bernardo Bertolucci. Dopo aver scritto la sceneggiatura con l'aiuto di Massimo D'Avack, ed aver ottenuto i finanziamenti dalla Euro Film International, Barilli gira il film in otto settimane, dando vita ad un'opera ramificata e dalle molteplici chiavi di lettura.
Il film racconta la storia di Silvia (interpretata dalla bellissima Mimsy Farmer), una chimica rimasta fortemente traumatizzata da un'esperienza vissuta in tenera età, ovvero la visione della madre Marta ( Renata Zamengo ) a letto con un certo signor Nicola (Orazio Orlando ) , che, dopo la morte del padre, ne diventerà il compagno. Sebbene la ragazza abbia imparato a condurre una vita normale con al proprio fianco il fidanzato Roberto ( Maurizio Bonuglia ), degli strani avvenimenti, apparentemente casuali, tra cui la visione di una donna vestita di nero intenta a profumarsi il decolté (da qui il titolo del film), rievocheranno in lei il terribile episodio, facendola entrare gradualmente in una spirale di follia sempre più tormentosa.
I più attenti, leggendo questa trama, avranno sicuramente colto la sua grande somiglianza con quella di“Marnie” di Alfred Hitchcock. Il Maestro britannico, infatti, si dimostra essere una grande fonte di ispirazione per Barilli (anche se, diciamocelo, per chi non lo è stata?), non solo per quanto riguarda il soggetto, ma anche per la messa in scena: l'arredamento dell'abitazione di Roberto, caratterizzato dalla minacciosa presenza di uccelli imbalsamati che inquietano e turbano la protagonista, così come i medesimi turbavano Marion Crane nell'appartamento di Norman Bates in “Psycho” , o la scelta di utilizzare un'accesa e misteriosa luce verde dietro le tende, nella scena in cui la protagonista cena col proprio compagno, che non può che rimandarci al Capolavoro “Vertigo” (“La donna che visse due volte” ), sono solo due esempi del carattere allusivo e debitorio della pellicola.
Rifacendosi anche ad altri maestri (come ad esempio Polanski, o lo stesso Bertolucci), Barilli, che oltre ad essere un attore e regista è anche pittore, mette in scena la sua opera prima con un tocco fortemente elegante e ricercato, dai leggeri movimenti di macchina, dalle inquadrature studiate e da un uso attento e preciso dei cromatismi. Sono i colori che, nella prima parte, la fanno da padrone, dove i bianchi, gialli e rossi dei fiori (elemento metaforico che molto spesso ricorre durante il film) si sposano perfettamente con l'atmosfera urbana della città, atmosfera che man mano va a decadere, così come la sanità mentale della protagonista. L'opera, infatti, nella sua costruzione, sembra seguire di pari passo l'esperienza di Silvia, lasciando spazio ad un secondo atto pregno di violenza e brutalità, cozzando imprevedibilmente con la raffinatezza della prima parte. E così, mentre la nostra protgonista sprofonda nell'irreversibile oblio della pazzia, ecco che saltano fuori, quasi improvvisamente, scene di violenza sessuale e crudi omicidi, che vanno a sfociare nel gore più estremo (tanto estremo da portare inizialmente Giovanni Bertolucci , quello che sarà poi il produttore del film, a rifiutare la pellicola). Persino la muscia, composta niente meno che da Nicola Piovani (Premio Oscar 1999 per “La vita è bella”), sembra agire in funzione di questa graduale trasformazione, passando dalle rilassanti melodie delle scene iniziali, alle minacciose note delle scene più inquitanti.
Chissà che non fosse proprio questo il messaggio che Barilli voleva dare, ovvero che...
...non c'è niente di più spaventoso della realtà .
Articolo di Andrea Gentili, revisione di Robb P. Lestinci
Potete acquistare il film cliccando questo link, inoltre, se volete approfondire quello che é il thriller all'Italiana, l'autore consiglia il saggio "Il Cinema Giallo Thriller Italiano" di Claudio Bartolini, di cui si é avvalso per la scrittura della recensione.
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❤️
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