Quando si parla di generi cinematografici, specialmente nell'ambiente filmico italiano, è prassi trovare un regista particolare, che, grazie al suo talento straordinario, è in grado di rappresentare a pieno quel determinato genere. Il western ha Sergio Leone, il thriller ha Dario Argento, il drammatico ha Pierpaolo Pasolini, la commedia ha Mario Monicelli, e l'horror ha, sicuramente, Lucio Fulci. Il maestro romano, che conta all'attivo ben 53 pellicole, è assolutamente, ancora oggi, un punto di riferimento nel panorama horror internazionale.
Definito da lui stesso “terrorista dei generi” per il suo modo totalmente naturale di uscire dai costrutti tipici del genere, Fulci ha trovato nel cinema orrorifico la sua “casa”, un cinema che gli consentiva di esprimere al meglio le sue idee ed i suoi stilemi. Che Fulci avesse un debole per il macabro lo testimoniano anche alcune particolari scelte inserite in diversi suoi film antecedenti alla sua fase “horror”, come ad esempio nel thriller “Non si sevizia un paperino” o nello spaghetti western “Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro”.
Tuttavia, il regista romano ha sicuramente raggiunto il massimo della sua espressività con la cosiddetta “Trilogia della morte” della quale fanno parte “Paura nella città dei morti viventi”, il capolavoro “...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà” e “Quella villa accanto al cimitero”, il film che adesso prenderemo in considerazione.
Tratto da un soggetto di Elisa Livia Briganti, già sceneggiatrice insieme al marito Dardano Sacchetti di “Zombi 2”, il film racconta la storia del dottor Norman Boyle (Paolo Malco) un giovane ricercatore che viene mandato nell'immaginaria cittadina di New Whitby, per proseguire le ricerche di un suo collega, il professor Peterson, suicidatosi in cause misteriose. Arrivato nella precedente e sinistra abitazione di Peterson, che in origine apparteneva ad un certo dottor Freudstein, con il figlio Bob (Giovanni Frezza) e la moglie Lucy (Katherine MacColl, presenza fissa in tutti e tre gli episodi della trilogia), assiste a degli strani avvenimenti, che si fanno man mano sempre più chiari ed inquietanti. Cosa aveva scoperto di così sconvolgente Peterson, tanto da portarlo al suo tragico gesto?
Già nei primi cinque minuti Fulci mette in chiaro quello che sarà il tono generale della pellicola: una giovane coppia si addentra di notte nella villa in questione, venendo, nel giro di poco, brutalmente uccisi da un individuo misterioso. Fulci non si contiene minimamente, mostrandoci fin da subito la morte dei due ragazzi senza stacchi, senza quella gradualità del “far intuire inizialmente e mostrare solo successivamente” tipica del genere. Il gore è immediato, tanto che il ragazzo entra in scena con delle forbici piantate nel petto ed il volto totalmente sfigurato, mentre la sua fidanzata viene uccisa con una coltellata che le trapassa il cranio.
Tuttavia, il maestro non rifiuta totalmente una connessione con gli stilemi classici del genere. La casa “infestata” costruita nei pressi di un cimitero, la cantina fatiscente e covo di inquietanti misteri, le voci acusmatiche che provengono da chissà dove, il bambino che diventa personaggio chiave della vicenda grazie a delle capacità particolari che gli adulti non hanno, tutti elementi non nuovi agli amanti dell' cinema dell'orrore.
Quest'ultimo aspetto è sicuramente uno dei più interessanti della pellicola, fornendole un'ulteriore dimensione, sempre più distaccata dalla realtà. Bob, infatti, riesce a raggiungere una connessione extrasensoriale con con la piccola Mae, una misteriosa bambina che sembra essere a conoscenza dei terribili segreti della villa, un personaggio che si rivelerà fondamentale nel corso della storia. Sul lato tecnico, Fulci rimane sul suo stile classico, che abbiamo imparato a conoscere nelle sue pellicole precedenti, con inquadrature molto strette ed invadenti soggettive sugli occhi dei protagonisti, che donano un'aria estremamente claustrofobica al film. Un'altra sua particolarità registica è l'utilizzo del “dettaglio” in una maniera molto vicina a quella teorizzata da Ejzenstejn col “cine-pugno”, grazie al focus su elementi estremamente forti e ripugnanti, con lo scopo di sconvolgere ulteriormente lo spettatore.
Visivamente il regista si avvale della tipica fotografia a bassa saturazione, sporca e fredda del suo cinema, intenta a mettere in risalto le atmosfere polverose e sudice dell'abitazione, non lasciando mai spazio a colori accesi in un cromatismo dominato da grigi e marroni.
Ma la scelta più geniale è stata, senza dubbio, quella del personaggio del dottor Freudstein, nome che si ricollega al profondo odio che Fulci aveva nei confronti della figura di Freud e della sua psicanalisi, fornendo al film un'ulteriore chiave di lettura, ma anche al personaggio di Frankenstein, un paragone che, una volta scoperto l'orribile segreto che questi porta con sé, raggiungerà lo spettatore in maniera quasi automatica.
Tutti elementi, questi, che rendono “Quella villa accanto al cimitero” uno dei film più personali di Fulci, forse il più intimista della trilogia, ovviamente bistrattato da quella critica ottusa che il regista si trovava in continuazione fra i piedi, troppo sangue e violenza dicevano.
Ma fortunatamente lo spettatore italiano aveva un debole per il sangue.
Articolo di Andrea Gentili, revisione di Sergio Novelli
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