Herschell Gordon Lewis è un nome che dovrebbe suonare familiare a tutti i fan accaniti dell'horror e, soprattutto, del genere splatter, essendo considerato dalla maggior parte dei critici come il progenitore del gore nel cinema, con film oramai considerabili di culto come "Blood Feast" del 1963 (pellicola paragonata dallo stesso regista a una poesia di Walt Whitman, "per niente bello, ma primo nel suo genere") o "2000 Maniacs" dell'anno successivo, vere e proprie pietre miliari dell'orrore, tristemente, quasi del tutto sconosciute in Italia, ma assai apprezzate e conosciute all'estero.
Oggi, però, non parleremo di nessuno dei due film sopraccitati, bensì del più recente, per modo di dire, e sconosciuto "The Wizard of Gore" del 1970, diretto, per l'appunto, da Lewis, scritto da Allen Kahn.
La pellicola segue la protagonista Sherry Carson (Judy Cler), una giornalista televisiva per un'emittente locale, indagare sul misterioso Montang Il Magnifico (Ray Sager), conosciuto come "The Wizard of Gore", il mago del sangue, un mago che, dinanzi a centinaia di spettatori, mostra truculenti omicidi a volontari che, puntualmente, appaiono illesi a fine show, solo per morire tragicamente poche ore dopo, seguendo uno schema oramai impossibile da ignorare. Ma qual è il segreto di Montang? Come mette in scena quelle macabre scene senza effettivamente uccidere il malcapitato? E, le morti susseguenti, sono davvero solo coincidenze?
A tutte queste domande, il film, risponde più o meno. Più o meno perché tutto diviene sempre più confuso: nonostante tre quarti del film seguano lo stesso esatto schema senza alcuna variazione, risultando a tratti ripetitivo con le periodiche scene degli omicidi/illusioni seguiti da morte della precedente vittima una volta rientrato in casa e breve indagine, sfocia nel divenire un qualcosa d'ingarbugliato, difficile da comprendere, come una matrioska di stranezze e colpi di scena del tutto folli e inaspettati, dopotutto, non vi è alcun setup per la loro introduzione, in un crescendo di plot twist che inglobano tutti gli ultimi minuti del film, in una moltitudine di rivelazioni che si rivelano poi false o minori rispetto alla rivelazione successiva, come a giocare al rialzo con la propria sceneggiatura senza alcun motivo logico, se non confondere e shockare lo spettatore.
Ma Lewis ambisce esattamente a questo, mostrare violenza su schermo e affascinare lo spettatore con essa, quasi in una metafora con il Montang del film, il regista crea illusioni di morte che si rivelano false, ovviamente, provocate da ben realizzati effetti speciali, in uno schema metanarrativo del tutto inaspettato per quello che fu un filmetto distribuito nel circuito dei drive-in, con una scarsa distribuzione home video e copertura mediatica. Ma, su quest'ultimo aspetto, non c'è da stupirsi: il film venne considerato troppo estremo per i canoni dell'epoca e vietato ai minori di 18 anni in vari paesi, tra cui Nuova Zelanda, USA e lo scontatissimo Regno Unito.
Tutti i capisaldi del proto-splatter di Lewis sono presentati in questa pellicola, considerabile un summum delle sue opere, tra budella sanguinolente in primo piano, colpi di scena quasi fuori luogo e pessima recitazione, costumi e scenografie ridicole ed un budget limitatissimo nonostante le grosse pretese. L'abilità del regista sta tutta nel non far pesare tutto ciò, di render il tutto coerente, come se qualcosa fosse stato fatto male solo per non cozzare con un altro aspetto non riuscito.
La coerenza del tutto, estremamente "cheesy", ma omogeneo, rende il film quasi godibile, un so "bad-it's-so good" che rende effettivamente lo spettatore curioso di andare avanti in quello che appare come un incubo causato da una cena pesante. L'atmosfera è, difatti, quasi onirica, con reazioni, eventi, personaggi e quant'altro il più lontano dal reale, un'imitazione esagerata di qualcosa che sarebbe potuta risultare quasi verosimile, ma che ha deciso di non farlo, come una commedia teatrale che non si prende per niente sul serio, esattamente come l'opera di Lewis.
Effetti speciali dozzinali e, probabilmente, gli attori meno capaci nel loro mestiere mai impressi su cellulosa, donano alla pellicola quel fascino tutto anni '70 che solo adesso è apprezzabile, un'ingenuità cinematografica costituita da grosse pretese senza averne alcuna allo stesso tempo, come se l'industria fosse solo un gioco dove sbizzarrirsi con le più folli idee, rendendo, nel complesso, questa pellicola una manifestazione artistica più eclatante di quanto non lo siano altre tecnicamente perfette che giocano carte sicure.
Un film invecchiato così male da poter esser visto, oggi, sotto luci diverse, al punto da aver generato un remake nel 2007 con Crispin Glover (il Mr. World di "American Gods"), come un cadavere maciullato che appare, poi, sano, seppur estraniato quanto il pubblico stesso. Un numero di magia, insomma.
Un ennesimo trucco del Magnifico Montang.
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Articolo di Robb P. Lestinci, revisione di Sergio Novelli
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