Avrei
voluto parlarvi di "Rabbits", un mediometraggio del 2002 di David
Lynch, ma parlare di un film come questo è forse un delle imprese più
ardue che esistano.
Partiamo dal presupposto che non vi è una
trama, letteralmente. Vi potrei narrare di cosa viene mostrato, ma non
servirebbe a molto, non sono legate tra loro le varie scene. Il film,
mantenendo la stessa prospettiva statica, tranne che per
un breve primo piano di un telefono che appare, tra l'altro, immotivato, mostra il
salotto di una casa (ricollegabile alla "Red Room", una sorta di sala d'attesa della Loggia Nera di "Twin Peaks" dello
stesso regista) dove vivono tre conigli antropomorfi che conversano:
Jack (Scott Coffey), unico che entrerà o uscirà dall'appartamento, Jane
(Laura Elena Harring e Rebekah Del Rio) e Suzie (Naomi Watts, unico personaggio che non si sposterà dalla sua postazione).
I
loro dialoghi sono sconnessi, fanno menzione al tempo, alla pioggia, ad
un segreto, a ciò che sta accadendo, ma tutto in maniera disordinata,
come se Lynch avesse scritto dialoghi coerenti e avesse poi mischiato le
battute rimuovendone deliberatamente altre, rendendo de facto
impossibile decifrare ciò che viene detto su scena, un enigma senza una vera risposta che viene messo in mano agli spettatori incapaci di venirne a capo, come un puzzle con dei pezzi mancanti e con altri a lui estranei nella sua scatola, che non lascia molte possibilità di un assemblaggio coerente o completo.
Ad
intermezzo vi sono poi scene oniriche e inquietanti, la stanza due volte
diviene rossa mostrando su una parete una faccia mostruosa che parla con voce cupa in polacco mentre uno dei personaggi entra in scena con delle candele alzate sulla testa come ad imitare un macabro rito; vi sono
intermezzi di una disturbante poesia recitata dai personaggi, sempre la stessa, nonostante incompleta, ed un terrificante urlo
finale. Ma nulla è contestualizzato o tantomeno contestualizzabile. Come in "Eraserhead" sembrava di
vedere un incubo, qua sembra quasi di vedere l'interno dell'inconscio di
qualcuno dove le varie idee ed i ricordi fluttuano disordinati, in
attesa che la mente li ordini. Una sorta d'iperuranio messo su
pellicola.
Lynch gioca anche con le nostre percezioni,
una colonna sonora (tra l'altro composta da Angelo Badalamenti, collaboratore
ricorrente del regista) diversa avrebbe, forse, reso il tutto meno inquietante, e lui lo sa perfettamente. Scene all'apparenza innocenti generano così ansia ed attesa per un qualcosa di orrendo che effettivamente mai
avverrà. Lynch gioca poi su come i media possano alterare la percezione del suo pubblico, inserendo risate ed applausi casuali che faranno chiedere
allo spettatore "Dovrei ridere?", se non riusciranno addirittura a farlo
sorridere, solo per fargli realizzare quanto non abbia senso ridere in
quel momento. Il regista smaschera come le sitcom alterino facilmente le reazioni del pubblico e quanto quest'ultimo sia facilmente manipolabile, lasciando completamente alienati, come le scene del film che stiamo osservando.
L'impossibilità di comunicare, questo senso di estraniazione perenne
nella pellicola, che inizialmente ci straniscono, ad un'analisi più
profonda iniziano a diventare familiari, come se il tutto fosse una
sorta di metafora della nostra reale incapacità, della nostra comunicazione fallace ed in effetti inesistente e di come
le nostre parole siano in realtà effimere e le nostre azioni
inconcludenti se viste da occhi esterni, come i nostri che si posano
sulla famiglia di conigli. Questi ultimi non sono altro che i nostri riflessi, esagerati, alla costante ricerca di rapportarsi con il prossimo senza però riuscirci davvero, in un ciclo perenne di discussioni vuote e senza soggetti, mancanti di qualsivoglia finalità.
O forse tutte queste congetture non
sono davvero nulla, sono flatus vocis, forse Lynch voleva solo
mostrarci conigli inquietanti che dicono cose senza senso per vedere
cosa avremmo ricavato poi noi. O magari non pensava nemmeno ci saremmo davvero mai posti tutti questi quesiti.
Non c'è la Luna stanotte.
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